Conferenze tenute a Firenze nel 1896. Various. Читать онлайн. Newlib. NEWLIB.NET

Автор: Various
Издательство: Public Domain
Серия:
Жанр произведения: История
Год издания: 0
isbn:
Скачать книгу
nemico ai patti preliminari di Leoben; e il 17 ottobre 1797, a Campoformio, con larghezza inaudita, all'Austria vinta in quindici giornate campali e in più di sessanta fazioni minori, cedeva lo Stato Veneto, dai confini della Dalmazia alla linea dell'Adige. Il 9 dicembre era a Parigi, per rientrare nella vita privata. Già troppo grande, e troppo fortunato, lo mandarono presto in Egitto, per colpir l'Inghilterra sulla via delle Indie, o piuttosto per disfarsi di lui. Fu sorte che non gli lesinassero gente, nè sussidii navali. Ebbe quarantamila combattenti, tredici vascelli di linea, a cui potè unirne due veneti da sessantaquattro cannoni, sei fregate pur venete, e otto francesi, settantadue legni minori e quattrocento trasporti, con diecimila marinai. Così, mentre la Francia rimasta senza di lui si disponeva a perdere quanto aveva per lui guadagnato di qua dalle Alpi, egli andava a vincere, come Cesare, in Egitto, e con la molteplice operosità del velocissimo ingegno ordinava quella famosa spedizione scientifica, onde ancora il suo nome è collegato al rifiorire degli studi orientali. Se l'armata del Brueys vinceva ad Aboukir, com'egli alle Piramidi e al monte Tabor, qual mutamento nel mondo! Segno che l'occasione era passata anche laggiù, lungo le foci del Nilo; e l'ammiraglio non ebbe, come il generale, la virtù di afferrarla.

      Perduto il buon punto sul mare, tornava inutile, o quasi, proseguir l'impresa per terra. Risoluto il ritorno dopo le tristi nuove del continente (e fu altra fortuna che l'ammiraglio nemico gli mandasse, quasi a scherno, i pubblici fogli), trafugatosi per prodigio alla crociera inglese, giunto inaspettato a Parigi, fatto il colpo del 18 brumale contro l'Assemblea dei Cinquecento, non più servitore ma arbitro e console, lascia ai due colleghi del triumvirato il governo, e con arditezza di concepimento non altrimenti superata che dalla celerità dell'atto, si difila dalle Alpi a capo di sessantamila combattenti, piomba su Milano, si volge su Marengo, e in un colpo fulmineo restaura le sorti della guerra. A quel colpo l'Italia inferiore, come la superiore, si costituisce tutta in repubbliche. Troppe, e fu errore, ond'egli pure partecipò; scusabile, nondimeno, poichè non era stabilmente il padrone. Quando lo fu, come primo console, poi come imperatore, non vide opportuno nè maturo il consiglio di uno Stato solo dalle Alpi alla Sicilia; aspettava un'altra occasione, la preparava: frattanto l'Italia dava a lui ben più di duecentomila spoltroniti, per le sue guerre d'Austria, di Germania e di Russia. E questa Italia mostrò di sentire tutta la grandezza dell'eroe, che in Francia non aveva destato estri di poeti inneggianti, nè meditazioni di cospiranti intelletti. Il Genio del Cristianesimo e il Concordato con Roma furono due opere affini; ma i loro autori non s'intesero, e il visconte di Chateaubriand, ingegno e stile mirabilmente adatto a magnificare, rimase malcontento, si trasse in disparte. Quanto alla signora di Stael, la dotta Corinna non diede altro all'Impero se non un libro avverso, l'Allemagne, glorificazione del genio d'un popolo nemico. Ed egli, che amava i vasti concepimenti dell'epica, vedendo già un altro Omero in quello smilzo Ossian del Macpherson, rimpolpato e rimpannucciato dall'arte del Cesarotti, egli che amava i forti contrasti della tragedia e volentieri avrebbe fatto principe dell'Impero il Corneille, se l'autore del Cinna si fosse degnato di nascere un secolo e mezzo più tardi, non ebbe un grande artista della parola che celebrasse le sue grandi imprese e i suoi vasti disegni. Il suo prosatore Fontanes tesseva discorsi accademicamente laudatorii, ma gli guastava i concetti universitarii, per vantarsene poscia ai ritornati Borboni. Più fortunato di qua dalle Alpi, ebbe dal Monti il Prometeo e il Bardo della Selva Nera, classiche e romantiche costruzioni di un ingegno poderoso, ma non condotte a termine; e forse avrebbe meritato assai più di rimanere in tronco la senile Pronea tra le stanche mani del traduttore e ricreatore di Ossian. Abbondavano, è vero, da noi le cantate cortigiane; ma non fu di cortigiano il panegirico di Pietro Giordani, o fu di tale che intese nel potentissimo uomo l'altissimo spirito, e perchè lo intese, e come lo intese, non dubitò di esaltarlo. Ugo Foscolo volle e non volle; sentiva il grand'uomo, ma ricordava Campoformio: e chi, riconducendosi col pensiero a quel tempo e ai giudizi d'allora, vorrebbe dargliene biasimo? Serviva intanto colla spada; restò in forse colla penna; ad ogni modo, irrigidendo davanti al re dei re i nervi della sua prosa, solo assai tardi uscì nelle mal celate ostilità dell'Ajace. Taccio dei minori, che il favore del trono accomunava allora, ed anche preponeva ai maggiori, come il Paradisi e il Lamberti. Se gl'ingegni italiani non fecero di più, pensiamo che si dolevano non avesse fatto anch'egli di più per la fortuna d'Italia, dond'era così lietamente incominciata la sua.

      II

      Poteva? Non così presto, certamente, come avrebbe voluto. Gli fu mestieri crescere in autorità, ed anche volgersi ad altro, legato egli stesso al carro della sua grandezza; uomo e simbolo ad un tempo, uomo nella personale ambizione, simbolo della rivoluzione in lui espressa e non del tutto soffocata sotto l'ermellino imperiale; costretto a seguire il destino, che lo lasciò vincer molto, senza concedergli interamente i frutti e gli arbitrii della vittoria. Così un ghiacciaio si avanza, prepotente nel suo volume, e con apparenza di onnipotente nella enormità del suo peso; ma stanno sott'esso le spine montuose e le insenature profonde che governano inavvertite i suoi moti. Pensate ancora ch'ebbe triste la vita, nella miseria del cominciare, nella difficoltà del giungere, nella necessità di vincer sempre, non riposando mai la fortuna; tra tanti sforzi d'ingegno e di volontà solo avendo un istante degno di sè, sulle rive del Niemen, in quella mirabil visione di potenza universale, ahimè spartita con un interlocutore non capace d'intenderla. Per tutto l'altro, infelice; infelice nelle prime nozze, quantunque abbia voluto concedere a sè come altrui l'illusione del contrario; infelice nelle nuove, e più nella facilità con che gli fu consentito di scioglier le antiche; infelice nella famiglia, tutta ambizioni ed appetiti insaziabili; infelice nei cooperatori, colmi di benefizi ed ingrati, onde la più felice sua nomina parrà ancora quella che non fece, di Pietro Corneille principe dell'Impero. E questa figura, epica nel colmo della potenza, divien tragica nell'eccesso della sventura. È un Prometeo, che non avrà rapita alla vôlta del cielo, ma bene ha potuto assicurare agli uomini la scintilla delle libertà civili; un Prometeo a cui non è mancata la rupe, Sant'Elena, nè l'avvoltoio, Hudson Lowe. Tale l'ha inteso il popolo, che raro s'inganna; il popolo, che ingrandisce qualche volta le immagini, ma solo per renderle a sè stesso più chiare. Così crebbe nelle fantasie popolari l'immagine di Carlomagno; il quale fu tanto grande per ciò ch'egli fece, più grande per ciò che disegnava di fare, grandissimo poi per il sogno che aveva ardito sognare. E non paia fuor di luogo il paragone, se tra due imperi quasi mondiali, eretti appena e sfasciati, si è aggruppata come intorno a due poli magnetici tutta la poesia della leggenda europea. Men fortunato Napoleone, apparso in tempi di luce così meridiana, che la leggenda, amica delle brume, non poteva più fiorire ed espandersi; e a lui s'imputarono tutte le cose che non aveva potute, come se non le avesse volute; laddove a Carlomagno non si fe' colpa di ciò che il suo impero aveva di caduco e il suo disegno di errato. È storia che vinti in tante guerre i Sassoni, gli Avari, i Turingi, gli Slavi, i Danesi e i Longobardi, padrone di tanta parte del mondo conosciuto, senz'altro competitore di gloria che il lontano signore di Bagdad, tremasse di sgomento al veder giungere una scorreria di pirati Normanni alle rive della Gallia Narbonese. Pianse, il potente imperatore; e ne aveva ben d'onde, per l'opera sua minacciata. I padroni del mare hanno sempre fatto piangere i signori della terra.

      Ma perchè nella compiuta maestà dell'edifizio si mostra la crepa? Forse ha errato l'artefice, e nell'error suo sta la ragione della caduta? O non c'è piuttosto una forza superiore agli uomini ed alle loro faticose costruzioni? Di rado la vogliamo riconoscere, procedendo con cieca logica nelle nostre deduzioni sistematiche. Ma quando ci siamo spinti troppo innanzi, intravvediamo qualche volta il pauroso abisso, e in quell'abisso un disegno più largo, che comprende i nostri e li confonde, una volontà più grande, tanto più grande quanto più oscura, che soverchia la nostra e l'annienta. Nè giova essere stati al posto del sole, e nella sua dignità. Anch'egli, l'astro maggiore, centro del nostro sistema planetario, che ci fa palpitar d'amore e tremare di reverenza, obbedisce ad una forza più lontana, attratto, come un povero pianeta, nelle vicissitudini ignorate di un sistema più vasto. E allora s'intende, confusamente s'intende quel che tanto dispiace alla nostra superbia, quello che tanto volentieri si dimentica dalla nostra iattanza.

      Pure, mai nato di donna fu più grande e in tal condizione di smisurata potenza. Alessandro, forse, Annibale e Cesare, furono più eccelsi capitani di lui, sulla cui strategia, sulla cui tattica, cercando in che veramente consistessero, e se obbedissero a costanti principii, si disputa ancora. Ma di quei tre, il primo nacque padrone, gli altri due cominciarono legittimi adoperatori di forze