Firenze allora celebrava, senza temere i rigori delle leggi suntuarie cadute in disuso, le feste nuziali delle grandi famiglie. Le nozze di Baccio Adimari con la Lisa de' Ricasoli, celebrate nel 1420, ci son rappresentate da un'antica tavola della Galleria dell'Accademia di Belle Arti, e vediamo gli sposi con la loro accompagnatura danzare sotto un padiglione a strisce di vari e ridenti colori, al suono d'una musica di trombe e di pifferi; ma di queste del Rucellai con la Medici, che ci danno l'imagine della vita d'allora, vogliamo tentare un quadro di cui ci fornirà le linee, i colori e il disegno lo Zibaldone del buon vecchio che ne serbò caro e pregiato ricordo.
Dorati dal fiammante sole di giugno, i festoni di verzura si distendevan superbi da un lato all'altro della via, levando in alto gli scudi, la metà coll'arme de' Medici e la metà coll'arme de' Rucellai. Le pietre ruspe della facciata che la magnificenza di Giovanni Rucellai aveva pochi anni innanzi fatto murare, come credesi, da Leon Battista Alberti, acquistavano quasi nuovo colore coperte com'erano dagli smaglianti parati e dalle ghirlande di fiori penzolanti da' pilastri dorici del primo piano e dai pilastri corinti del secondo e del terzo. Dirimpetto al palazzo, nella piazzuola di fronte alla loggia, era stato eretto un palco che aveva la figura d'un triangolo. Lo copriva, per difesa del sole, un cielo di panni turchini adornato di ghirlande, in mezzo alle quali sbocciavano freschissime rose; mentre di sotto, sull'assito di legno, si stendevano arazzi preziosi, che paravano anche le panche messe lì torno torno per comodo d'aspettare, e le spalliere chiudenti in giro il vago recinto. I lembi del gran velabro turchino scendevano qua e là fino a terra, come aeree colonne. Da una parte di quel gran padiglione sorgeva una credenza su cui splendevano vasi e piatti d'argento lavorati a rilievo da quanti più valenti orafi ed argentieri noverasse allora Firenze: e la ricchezza di quegli arredi annunciava la sontuosità del convito che apparecchiavasi.
Nella via di fianco al palazzo s'eran poste le cucine, dove fra cuochi e sguatteri lavoravano cinquanta persone. Il rumore era grande; via della Vigna da un capo all'altro era piena di gente: agli artefici che avevan preparato gli addobbi, succedevano i messi che portavano i doni degli amici, dei clienti, del parentado: i contadini, i giardinieri, i bottegai, gli speziali che portavano le vettovaglie; i pifferi e i trombetti che preparavan le musiche: i giovani cavalieri che si accingevano agli armeggiamenti nuziali.
Quella domenica – era l'otto giugno del 1466 – poco dopo il levar del sole avea la gente cominciato ad accorrere da ogni parte al palazzo dove le nozze dovean celebrarsi: arrivavano, cara e promettente vista ai curiosi, vitelle squartate, barilozzi di vino greco, capponi quanti ce ne possono stare appiccati a una stanga portata a spalla da due robusti villani, stangate di formaggi di bufalo, coppie di paperi, barili di vino comune e di scelto trebbiano, corbelli pieni di melarance, ceste di pesci di mare grandi e odorosi, paniere di pesciolini d'Arno con le squame d'argento, caprioli, lepri, giuncate. – Venivano, portate dagli ortolani dei monasteri, cestelline di zuccherini, di berlingozzi e d'altre dolcissime delicature preparate dalle candide mani di monacelle gentili: venivano a gran fatica, dondolando la testa fronzuta, e barcollando sui carri tirati da bovi sbuffanti un magnifico ulivo di Carmignano, e ginestre e quercioli tolti alla villa di Sesto, co' fiori che la ridente stagione donava in gran copia.
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