La vita Italiana nel Risorgimento (1849-1861), parte III. Various. Читать онлайн. Newlib. NEWLIB.NET

Автор: Various
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Жанр произведения: Прочая образовательная литература
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censore, è un titolo storico; quivi almeno bisognerà lasciare Marzio, se no il pubblico si accorgerà del mutamento! – Non ci fu verso, e i Veneziani si sentirono annunziare, non Don Marzio, ma Don Marco alla bottega del caffè.

      Volpi fini bisognava essere per cogliere, traverso queste smozzicature e questi veli, l'intenzione dell'autore; per ridere a tempo della goffaggine dei governanti; per applaudire a tempo ogni accenno, fosse pur incerto e remoto, dell'idealità segreta in ogni petto italiano. Le cronache teatrali son piene di documenti per sì fatta corrispondenza tra gli autori e gli spettatori. Dopo aver ben bene tagliato e rimpastato, le polizie si trovavano innanzi, ad ogni momento, uno scartafaccio più incendiario che mai: tra le righe del copione approvato lo scriveva via via, quasi con inchiostro clandestino, il sentimento nazionale; e il caldo della ribalta lo faceva colorirsi e apparir fuori, tra le risa o gli applausi, sotto gli occhi stupiti de' revisori, che prima non ci avevano letto niente.

      Quanto poi a quelli che dianzi chiamavo gli impulsi generosi del leone, basta ripensare agli effetti ottenuti da Gustavo Modena, nel recitare la Divina Commedia. Che più innocente di un canto di Dante? non scrisse egli nel secolo XIV? che pericolo ci poteva essere ormai in una pagina del teologico Paradiso?

      La massima difficoltà che ha da superare un lettore di Dante a me par che sia questa: il poema è autobiografico, e nel tempo stesso rappresenta le cose e le anime in modo tale che il lettore mal può guardarsi dal cadere nella declamazione drammatica. Ernesto Rossi, per esempio, che tanto valeva per altre parti, a me non riusciva quale lo avrei voluto io, perchè faceva dell'episodio dei ladri non tanto un racconto quanto un'oggettiva raffigurazione. Il Modena, no. Veniva in iscena nelle sembianze di Dante, e aveva quivi accanto, seduto a un leggìo, un giovinetto vestito anch'esso secondo le fogge del Trecento. Dante aveva già composto il canto; era allora nel correggerlo, compierlo, dettarlo; e in fare ciò si riaccendeva, rivedeva con la fantasia i luoghi già immaginati, riudiva le voci, si moveva come un veggente che fosse insieme consapevole dell'arte e di sè. E consapevole altresì era il Modena della patria; e scriveva che: «I nostri odierni dolori spiegano assai meglio la Divina Commedia che non la parola morta delle glosse. Ogni esule scenda in sè, e vi troverà la rivelazione del movente e dello scopo di Dante. Se oggi non è inteso il poema, ci rimarrà in eterno un indovinello.» Oh nel gesto, nella parola del Modena, tutti sentivano non pur Dante, ma anche la patria!

      Trovo, in un numero della Nazione del 1860, ciò che vi scriveva un cronista per una serata nel teatro Niccolini: e, rileggendo, come un alito caldo ci venterà sulla faccia: «Nel canto XXVII del Paradiso accadde una mezza rivoluzione; e alle terzine dove San Pietro esclama:

      Non fu nostra intenzion ch'a destra mano

      De' nostri successor parte sedesse.

      Parte dall'altra, del popol cristiano;

      Nè che le chiavi, che mi fur concesse,

      Divenisser segnacolo in vessillo

      Che contra i battezzati combattesse;

      a queste terribili parole, declamate con un accento scrutans cordia et renes, tutta la platea si levò in piedi urlando con frenesia, quasi intendesse simultaneamente applaudire al grande artista e protestare di nuovo contro le stragi ancora invendicate di Perugia e contro i massacri che sta pertinacemente meditando la corte di Roma!»

      Il contrasto aperto o dissimulato tra le censure e gli autori, tra le polizie e gli attori e i pubblici, è dunque una delle caratteristiche del teatro italiano negli anni tra il 1849 e il '61. Gli attori erano quasi tutti liberali, e molti attestarono i sentimenti loro, con più certa prova che non fossero le declamazioni, e anche le multe e le brevi prigionie, militando volontarii contro l'Austria. A rinfocolarli valeva il fervore del pubblico. E quando alcun d'essi riusciva sospetto, spesso a punirlo di pena giusta o ingiusta provvedevano le platee. Troppo ebbe a soffrire nel 1860, a Genova, Ernesto Rossi, crudelmente fischiato e costretto a partirsene, perchè era stato a Vienna, e dicevano che là si fosse tanto inebriato dell'oro e dell'incenso da non volere ormai nemmeno aver parte in un dramma, la Teresa Mazzanti d'Ippolito D'Aste, pieno d'allusioni ai nostri nemici. Se volle riconquistarsi il favore dei Genovesi, dovè il Rossi, quattro anni dopo, fare in pieno teatro aperte dichiarazioni; e le fece, sia lode al vero, con accortezza e con dignità.

      II

      Il Manzoni, da vecchio, diceva a Vittorio Bersezio che la forma drammatica antica era finita; il pensiero nuovo l'aveva trovata troppo angusta e l'aveva fatta scoppiare; non ve n'erano ormai più che i frantumi, che invano alcuni tentavano di raccozzare insieme per dar loro apparenza di cosa consistente: la forma nuova, intanto, quella che doveva corrispondere ai bisogni nuovi, non c'era stato ancora barba d'uomo a trovarla. Per conto suo, sperando che i tentativi irrequieti precedessero forse di lontano l'ignoto riformatore che ammirerebbero i figli o i nepoti, si compiaceva solo della commedia dialettale. Infatti, quando Le miserie 'd monssú Travet, da Torino, dove prima comparvero nel marzo 1863, passarono a Milano, egli, che da trent'anni non aveva messo piede in un teatro, andò a sentire e applaudire. Il pubblico, a vederlo, applaudì lui, ed egli, finchè potè, battè le mani sforzandosi a credere e a far credere agli altri che il Bersezio solo era il festeggiato così.

      Fatto sta che la tragedia classica, colpita nel cuore dal Romanticismo, morì; e una caratteristica dell'età di cui vi discorro è appunto nel suo scomparire, nell'affievolirsi della commedia goldoniana, nel trasformarsi insomma del repertorio.

      Fin dagli ultimi del secolo XVIII si erano alternate sul palcoscenico molte più forme e varietà di spettacoli che non abbiamo oggi. A scorrere i diarii teatrali di quel secolo declinante e del XIX sorgente, è impossibile non meravigliarsi della sovrabbondanza. La tragedia classica con le unità di tempo e di luogo era la forma officiale; ma accanto le sorgeva vigorosa la tragedia di argomento moderno, che chiamavano urbana, e che non di rado già delle unità non si curava; e all'una e all'altra toglieva un po' di favore la concorrenza del dramma storico e romanzesco, macchinoso, farraginoso, commisto di riso e di pianto. Del pari la commedia ridanciana con le maschere e senza le maschere, durava ancora, mentre la commedia sentimentale faceva spargere tante dolci lacrime. E vi erano inoltre allegorie e fiabe; e perfino libretti di melodramma recitati senza la musica. Più, le così dette commedie dell'arte, e le caricature regionali impersonate in Stenterello, Pulcinella, Arlecchino, Brighella, Pantalone, Cassandrino, Rogantino, e altre sì fatte argute o scurrili figure.

      Venne la questione tra Classicisti e Romantici: e quella che era stata una confusa e polverosa baruffa di avventurieri si mutò in un'ordinata battaglia di belle e ben capitanate milizie. Dopo gli esempii del Goethe e dello Schiller, ebbe allora l'Italia col Manzoni il dramma storico meditato e dotto, senza le regole accademiche, sebbene quasi imbevuto di classicità, innanzi che la Francia prepotesse e in un certo senso snaturasse il romanticismo nel teatro: ma la Francia, comunque sia, non tardò ad esportare e a diffondere anche fra noi quelle sue nuove merci teatrali. Vani erano riusciti da un lato i tentativi del De Cristoforis e del Tedaldi Fores per mantenersi più o meno nella strada aperta dal Manzoni; vani anche, dall'altro, quelli di Giovan Battista Niccolini, d'iniziare lui una scuola che fosse possente di effetti lirici e drammatici insieme, con viva e diretta azione patriottica. Questa, non è dubbio, egli ottenne; ma l'Arnaldo da Brescia che nel 1843 suggellò l'arte sua, stampato a Marsiglia, non potè venire in Toscana che di nascosto, dentro alcune botti da caffè; e anche quando fu letto liberamente, non potè salire sul palcoscenico, perchè poema in dialogo anzi che dramma.

      Molti tra voi rammentano, certo, il vivace racconto che Ferdinando Martini fece del suo arresto e della partaccia che a lui sedicenne toccò dal prefetto granducale, quando, nel luglio del '58, in una dimostrazione sorta nel Teatro Nuovo dopo una recita della Medea, sentendo crescere gli applausi da – Viva Niccolini! a – Viva il poeta italiano! – Viva la gloria d'Italia! – Viva l'Italia! – gridò per conto suo – Viva l'autore dell'Arnaldo! – ch'ei non sapeva, del resto, che cosa si fosse. Questi stessi evviva palesano la principale ragione di certi entusiasmi suscitati dal Niccolini; ed è indubitabile che egli nè iniziò nè poteva lasciare una scuola, sebbene alcune delle sue tragedie, come la Medea, l'Antonio Foscarini, il Giovanni da Procida, durassero a lungo sulle scene. Dopo il 1849 ormai il vecchio poeta viveva appartato,