La debolezza del governo si palesava poi ogni giorno di più colla mancanza ovunque di sicurezza pubblica e con brutti torbidi in Roma fra una classe e l'altra d'operai o fra plebe ed ebrei, con forte sospetto, che fossero sobillati da austriacanti e gregoriani. Ed ecco domandarsi a difesa la Guardia Civica, istituzione, che noi abbiamo vista divenir ridicola e poi a poco a poco svanire, ma che allora era importantissima, uno anzi degli articoli di fede del Credo liberale.
Non volle saperne il cardinal Gizzi e si dimise. Tutt'al più avrebbe consentito a rifare i Centurioni alla Bernetti. Che cime d'intelligenze anche allora fra certe aquile del Sacro Collegio!! Ma quella del Gizzi era essa una dimissione od una fuga?
Siamo alla vigilia del primo anniversario dell'amnistia, ed il popolo, si può credere, s'apparecchiava a festeggiarlo più che mai. Ad un tratto, che è? che non è?.. voci paurose si diffondono che l'Austria, d'accordo coi cardinali più avversi a Pio IX, coi Gesuiti e coi retrivi, trama di suscitare gravi disordini nell'Italia centrale per pescarvi un pretesto d'intervento e farla finita subito con tutto questo tramestìo riformista, che le puzza forte di rivoluzionario; i peggiori arnesi della vecchia polizia pontificia sbucano dal guscio delle loro paure e si mostrano di nuovo per Roma baldanzosi, insolenti; essere accorsi, dicevasi, briganti e borghigiani di Faenza, avanzi di sanfedismo, pronti al sangue e al saccheggio; monsignor Grassellini, governatore di Roma, di balla con essi; non altro aspettarsi che l'opportunità di agire.
Ciceruacchio ne è informato; fa sospendere e rimandare tutte le feste già preparate; raduna i suoi seguaci più fidi; rincorre i sanfedisti; alcuni arresta, altri sbanda, altri costringe alla fuga; mette insomma il campo a rumore; ottiene un armamento provvisorio della Guardia Civica; fa destituire ed esiliare il Grassellini; s'incomincia un processo, la trama è sventata, ed il Gioberti può senz'altro paragonare Ciceruacchio a Cicerone, quando salvò Roma dalla congiura di Catilina.
Tuttociò era avvenuto a vista ed a saputa di tutti; un proclama del nuovo Governatore di Roma l'aveva ufficialmente confermato. Eppure, lo credereste? Questa, che si chiamò allora la gran congiura di Roma è da moltissimi scrittori negata; da altri tenuta in conto d'una fantasmagoria insignificante, che solo l'immaginazione popolare ingrossò, da altri infine è mutata addirittura in una cospirazione dei liberali contro i retrogradi.
Due circostanze però, messe ora in piena luce, chiariscono il mistero: l'una è la contemporaneità d'un simile tentativo in altre dieci città italiane, l'altra è l'occupazione improvvisa di Ferrara per parte degli Austriaci il 17 luglio 1847.
A questa avea preceduto l'offerta d'intervento armato nelle quattro Legazioni fatta dal Metternich a monsignor Viale Prelà, nunzio a Vienna, avversissimo a Pio IX, e confermata in Roma al cardinal Gizzi dal conte Lutzow, ambasciatore austriaco. La quale offerta è provata dalla corrispondenza diplomatica dei due residenti inglesi di Vienna e di Firenze con Lord Palmerston e da quella del Conte di Revel, ambasciatore di Sardegna a Londra, col suo Ministro degli esteri.
Non accettata l'offerta, fu tentato provocar l'intervento, eccitando tumulti nell'Italia centrale, con che quella vecchia volpe del Metternich si proponeva due fini, come apparisce dalle sue lettere e dalle sue Memorie, l'uno che se il tentativo riusciva si percorreva al solito in sembiante di restauratori dell'ordine mezza Italia e tutto era finito; l'altro, che se il tentativo non riusciva, la brutale violenza dell'occupazione di Ferrara avrebbe provocato in modo il sentimento degli Italiani, che il riformismo, messo in voga da Pio IX, avrebbe per forza dovuto strapparsi la maschera e lasciar prorompere la rivoluzione e la guerra, e allora bazza a chi tocca, ma almeno s'avrebbe avuto di fronte un corpo, una cosa salda, e non un'ombra inafferrabile, e in ogni modo gli si sarebbe piombato addosso, mentre era ancor debole, scompaginato e, nell'opinione del Metternich, assai più impotente di quello che si mostrò in realtà.
La cosiddetta congiura di Roma è dunque veramente esistita, e grande o piccola che sia stata, un'ignobile bricconata fu di certo e tutta opera del Metternich, degli austriacanti e dei nemici di Pio IX.
Se è parsa dubbia a taluno, se gli storici clericali si sono valsi di questa incertezza per negarla, se restò un abbozzo, anzichè un quadro finito, ciò non toglie nulla al merito del politico senza scrupoli, che la inventò e la promosse, tanto più che se il primo de' suoi calcoli andò fallito, il secondo riescì appuntino, e l'occupazione di Ferrara accelerò a precipizio tutto il moto italiano, chiuse il periodo delle riforme e iniziò quello delle costituzioni, delle insurrezioni e della guerra d'indipendenza, la vera cioè, la grande rivoluzione del 1848.
Ma un altro dubbio sorge qui. V'ha chi pretende nient'altro che Pio IX fosse già complice dell'Austria in questo momento e già pensasse a fuggire da Roma e già avesse chiesto egli stesso l'intervento dell'Austria. Se non che alla gratuita affermazione di pochi manca persino ogni apparenza di prova, mentre invece basta riflettere che se il Papa l'avesse voluto, nessuno l'avrebbe allora impedito e che niente avrebbe giovato meglio al Metternich, per tagliar corto alle proteste del Papa sull'occupazione di Ferrara, e screditarlo per sempre nell'opinione liberale, del rivelare il segreto della sua complicità. No. Non si esclude che tra il Metternich ed il Viale Prelà a Vienna, tra il Lutzow ed il Gizzi a Roma qualche trattativa fosse corsa, e forse è in ciò il motivo della dimissione del Gizzi e la spiegazione dello strano motto del suo successore, Gabriele Ferretti, alla Guardia Civica di Roma, convocata per la tutela dell'ordine: «mostriamo all'Europa che noi bastiamo a noi stessi;» ma pel Metternich, come si rileva da una sua lettera al Ficquelmont del dicembre 1847, Pio IX è ancora un capo di Carbonari, riescito, non si sa come, a cingersi la tiara di San Pietro, nè il principe Cancelliere avrebbe giuocata coll'occupazione di Ferrara l'ultima carta, se avesse avuto tanto in mano da potersi sbarazzare di colpo e senza rischio d'un tale avversario.
Alla popolarità di Pio IX la congiura di Roma e l'occupazione di Ferrara giovarono; ma tre conseguenze si manifestarono subito: l'odio alla Corte e alla Curia, che espresso da pochi per le vie fin dal marzo nel grido: Viva Pio IX solo, divenne ora il grido di tutti; l'allargarsi del moto riformista, il quale, se in Roma aveva già quasi compiuta tutta la sua parabola ascendente, agitò ora nello stesso modo Napoli, Palermo, Milano, Torino, Firenze, e infine l'aspirazione nazionale a cacciar l'Austria dall'Italia, che, dissimulata finora sotto il velo delle riforme, proromperà fra breve con un entusiasmo irresistibile e darà, ripeto, tutto il suo genuino carattere alla rivoluzione iniziata coll'amnistia di Pio IX.
E comincia pure (se non sarebbe meglio dire: continua) l'equivoco fatale, per cui ogni atto, ogni parola del Papa si traggono ad un senso maggiore, più largo e in sostanza diverso, che non abbiano in realtà, e solo uno schiarimento ch'egli voglia dare del suo pensiero, de' suoi scrupoli o delle sue ripugnanze s'interpreta prima per un artificio e una vittoria dei gesuiti o degli austriacanti, poi per una sua defezione e finalmente per un vero e proprio tradimento alla causa italiana.
La Consulta di Stato, che per lui era il non plus ultra delle sue concessioni, si tira subito ad un principio di governo rappresentativo, e non sono i soli democratici e gli esaltati ad interpretarla così, ma gli stessi moderati, che della Consulta fanno parte. L'aver restituita a Roma una rappresentanza municipale pare al Papa un gran che e da doversene contentare i più esigenti. In quella vece la rappresentanza municipale chiede subito, come complemento necessario d'ogni riforma, la Costituzione, mentre d'altro lato cardinali, diplomatici, Gesuiti assediano Pio IX, perchè non si lasci andare alla corrente e profetizzano scismi, eresie, il finimondo, ad ogni nuova sua concessione.
Delle ambiguità, delle incertezze, dell'innanzi e indietro di questa bizzarra situazione, il satirico popolare romanesco dà torto agli altri e non al Papa:
Chè tra Erode e Pilato, Anna e Caifasso
Io, er Papa dirà, me chiamo gesso;
Cor una mano scrivo e l'antra scasso.
Ed