Si era fatto silenzio, vedendo nell'atteggiamento e nel gesto del personaggio la promessa del brindisi. E il Gregoretti incominciò, celebrando in graziose strofe i meriti straordinarii dell'anno allora allora finito. Il che era contro l'usanza, per verità; ma si sapeva bene che il Gregoretti non faceva mai niente a modo degli altri. A suo giudizio, l'anno andato meritava ogni lode, non avendo recato nessun dispiacere a lui, nè agli amici suoi; e questo era molto, anzi poco mancava che non fosse tutto. Sì, buon Dio, si poteva anche ammettere che non fosse stato nè carne nè pesce. Ma il suo successore, il neonato, non si sapeva ancora che diavolo sarebbe riuscito.
E il vecchio, poi, era anche finito bene: ci pensassero un pochino, i signori commensali; era finito stupendamente per tutta una gentile brigata, sotto l'incanto della bellezza accompagnata alla grazia. Occhi soavi, amabil sorriso… E più avrebbe detto il poeta, perchè c'erano da enumerare i pregi a centinaia. Ma siccome il ritratto sarebbe stato poi sempre inferiore all'originale, egli prendeva consiglio da quei pittori da dozzina, che dopo aver disegnata e colorita con tutta l'arte che possiedono la figura del committente, gli pongono in mano una lettera, colla soprascritta bene in vista, per istruzione del pubblico. Il nome, di quella bellezza, di quella grazia incantevole, doveva egli proferirlo? Non era già pronto a scoccare, sulle labbra di tutti? Animo, via, lo dicessero pur tutti con lui, senza timore di guastargli la chiusa, lo dicessero tutti a gara, quel nome grazioso, “quel nome caro ai Veneziani„ della signora… E qui una sospensione, che permetteva a tutti di prorompere in coro: “Livia Zuliani„.
La signora Livia Zuliani, udendo quella enumerazione di pregi femminili, e indovinando che col suo nome sarebbe andata a finire, si era fatta via via d'un bel colore vermiglio; a suo vantaggio, senza dubbio, perchè prima d'allora, diciamolo pure, con tutta la sua risoluzione di fare a mala sorte buon viso, era stata un po' verde.
Tra gli applausi e gli evviva dei suoi convitati, la bella nervosa, atteggiate le labbra al sorriso, levò il suo calice, accostandolo cortesemente a quello del suo poeta. Ed anche, sorridendo sempre e ringraziando, dovette ripetere la cerimonia con tutti.
Raimondo era in estasi: vedeva tutto vermiglio, come il volto della sua Livia. Ma non poteva star sempre lì, in contemplazione della propria felicità; da buon padrone di casa, doveva darsi moto, tener desto il fuoco della allegrezza ne' suoi convitati.
– L'anno vecchio ha ottenuto il suo elogio; – disse egli; – chi farà l'elogio del nuovo?
– Tu; – gli rispose il Gregoretti.
– Io? Non son poeta; e dovrei tesserlo in prosa.
– In prosa, da bravo; purchè sia prosa robusta.
– Se non sarà, non vorrete mica accopparmi; – conchiuse Raimondo, che già sentiva venir l'estro ad una seconda versata che i servi facevano in giro.
Levò allora il suo calice, e così prese a parlare, con intenzione d'esser solenne:
– Signore e signori, onde questa casa è onorata, auguro a tutti voi che il nuovo anno sia lieto, come furono a me i sette che lo hanno preceduto. Esaudisca egli il voto che gli esprimo… – soggiunse l'oratore, ispirandosi d'un subitaneo pensiero, e versando sulla tovaglia un mezzo dito del suo vino, – … il voto che gli esprimo libando a lui, come un sacerdote antico, con questo roseo dorato liquore.
– Bene osservato; il roseo dorato è una particolarità della vedova Clicquot; – disse il Gregoretti, guardando contro la luce il suo calice.
– La vedova, – rispose Raimondo Zuliani, cogliendo quella volta l'ispirazione dalle parole dell'amico, – la vedova è stata moglie; parliamo dunque del matrimonio. Non senza ragione vi accennavo i miei sette anni felici. A voi, scapoli impenitenti! aiutate con buone risoluzioni l'adempimento del voto che io ho formato poc'anzi, e il nuovo anno vi colmerà delle sue benedizioni. Chi vorrà dare l'esempio? Voi, amico Brizzi, non è vero?
– Me ne guardi il cielo! – gridò il signor Brizzi, facendo un gesto d'orrore.
– E perchè? – domandò Raimondo. – Vi conosco e vi stimo da gran tempo, mio caro, e so che non fate e non dite mai cosa su cui non abbiate pensato due volte. —
Il signor Brizzi si avvide di non aver pensato neanche una a ciò che gli era uscito allora di bocca. Era stato un grido dell'anima; e bisognava attenuarlo con qualche spiegazione.
– Perchè? – rispose. – È presto detto, il perchè. Renderei infelice la donna che avesse la cattiva ispirazione di accettar la mia mano. Son vecchio, sapete? son vecchio.
– Ma che? – entrò a dire la contessa Galier, che non voleva sentir parlare di malinconie. – Vecchio è chi muore.
– Signora contessa, la prego di credere che ho passati i cinquanta. Il matrimonio non è più fatto per me, salvo il caso di voler saldare insieme due cocci scompagnati. Con che gusto, poi? con che utile per la società? Pensiamo alla società, miei signori; è anche di moda. E concludiamo; il matrimonio è fatto pei giovani. —
Raimondo avrebbe volentieri abbracciato il suo segretario. Senza volerlo, senza pensarci neanche, quell'ottimo signor Brizzi gli dava la mano, tirandolo dov'egli intendeva per l'appunto avviarsi.
– E allora rivolgiamoci ai giovani; – ripigliò. – Auguriamo per esempio al conte Aldini la felicità ch'egli merita. Sei al momento buono, mio caro Filippo. È perchè i voti del capo d'anno sono privilegiati su tutti, io ti auguro con maggior fede una sposa degna di amore e di stima… perchè non lo direi? come la mia.
– Raimondo! – esclamò la signora Livia. – Mi farete arrossire. —
E più avrebbe detto, tanto era seccata. Ma le bisognava rattenersi, star lei in riga, se non sapeva starci il suo signore e padrone. Ah, quella benedetta varietà di vini dei pranzi e delle cene solenni! Manda i fumi alla testa, snoda le lingue, fa dir sciocchezze agli uomini serii, troppe sciocchezze; e con una insistenza, poi, con una insistenza degna di miglior causa.
A farlo a posta, il suo signore e padrone insisteva.
– Ebbene, sì, che c'è egli di male? Viva la sincerità. Son tutti amici, qui, d'antica data, e strettissimi; gradiranno ch'io parli come penso. Sarebbe ipocrisia in me il tacer loro che sono felice. Credi a me, dolce amico; – soggiunse, volgendosi all'Aldini; – segui l'esempio di chi ti vuol bene. Io bevo intanto alla tua fidanzata. —
Filippo era sulle spine; e doveva mostrarsi tranquillo, accogliendo lietamente gli augurii dell'amico Raimondo.
– Senza conoscerla! – esclamò egli, tanto per dire qualche cosa.
– Eh, pensiamo se tu, almeno tu, non te ne sarai formato un'idea! – incalzò Raimondo. – Nella mente d'un giovinotto, o nel cuore, la futura compagna della vita c'è sempre, immagine vaga, da principio, ma che a poco a poco va prendendo i precisi contorni di una giovine e conosciuta bellezza. Dico bene?
– Ottimamente! – gridò il Gregoretti. – Dopo la prosa robusta, ci dai la prosa elegante, la prosa poetica.
– L'argomento ne franca la spesa; – rispose Raimondo, i cui occhi andavano come per incanto verso la signorina Margherita.
La fanciulla teneva i suoi molto bassi, avendo l'aria di voler aggiustare una piega della sua sopravveste. Ma intanto si era fatta un po' rossa, dal sommo della fronte fino alla radice del collo. E stava bene così, era più bella che mai, mettendo in mostra il volume dei capelli neri, ondati e lucenti, che sull'incarnato del viso luccicavano due volte tanto, con mobili riflessi turchini. Bella e divina creatura! Un poema, l'aveva dichiarata il Gregoretti, quella medesima sera, vedendola per la prima volta nel salotto della signora Zuliani. Perchè poi un poema? Ci sono tanti poemi brutti! e tanti altri mediocri!
Ma