– Ah ci vuol altro che un medico! La scienza non conosce il mio male, non lo ha classificato ancora ne' suoi libri; ma esso esiste, esso è là dentro.
– Dove?
– In quell'orologio a pendolo. Esso ne è il simbolo parlante, esso il complice infame. Non odi? tran… tran… tran… Maledetto! È lui che ci misura la vita e ce la fa mandar giù in ventiquattro pillole al giorno; è lui l'omeopatico che ci tiene a bada con sessantesimi d'ora, con sessantesimi di minuto, e ci fa morire con dosi infinitesime; è lui… Insomma, che ti dirò? Io odio gli orologi. Giovinetto ancora, io già presentivo la guerra che m'avrebbero mossa questi nemici dell'umanità, e mi vendicavo, anticipatamente, mandandoli, l'un dopo l'altro, al Monte di pietà. Adesso, si è uomini sodi, padroni di sè e delle sue ventimila lire d'entrata, e queste vendette bisogna lasciarle in disparte. Ma io troverò pure uno spediente; metterò, non foss'altro, un premio di mille lire per colui che scriverà un libro contro gli orologi, da camera e da tasca, pendoli, cronometri, ripetizioni, cilindri, saponette, áncore, castelli, ecc., ecc., e proverà che il loro inventore è stato un cattivo arnese… un briccone. —
In quella che l'avvocato Fenoglio tirava giù con burlesca gravità contro i poveri orologi, Felice aveva cavato il suo dalla tasca del pianciotto e ne faceva scattare il coperchio d'oro.
– O il tuo va male, o il mio; – disse egli. – Son già le tre e mezzo del mattino, e debbo ancora chiederti un servizio innanzi di andarmene. —
Ma Fenoglio non gli dava retta; aveva veduto l'oriuolo di Felice e volea rompergli una lancia addosso.
– Ah, tu quoque, Brute? E tu sei un uomo che si diverte? col nemico in saccoccia?
– Che vuoi? è la consuetudine. E poi, non si è mica schiavi del proprio orologio! Il mio, come quello di tutti i figli di Adamo, va bene una volta all'anno. Io lo consulto per passatempo; egli fa a modo suo, io al mio, e andiamo d'accordo come marito e moglie. Ma tu, piuttosto, perchè non rompi il tuo, e non te lo levi dai piedi?
– Bravo! e la gente di servizio? Esso è in casa un arnese necessario, fatale, come la noia per me; il suo tran tran ha dato la misura al tran tran della mia esistenza. Rompessi anche il pendolo, la mia vita monotona suonerebbe, io credo, le ore e i quarti d'ora in vece sua. Oh Felice, felice te che non ti annoi!
– E non mi avverrà mai fin ch'io viva: – rispose Magnasco; – io ho per cotesto un segreto infallibile.
– Dove si vende? ch'io vo subito a comperarlo, senza nemmanco levarmi questa zimarra di dosso…
– Oh, non tanta furia! Tu non hai bisogno di andare dallo speziale per questo. Fa a modo mio; abbandonati all'ignoto. Non chiedere mai a te stesso: «che cosa debbo io fare quest'oggi, per passar mattana?» Vedi, Fenoglio; io non mi sono mai così divertito, come un giorno che uscii di casa nell'intento di annoiarmi. Lascia operare il caso. Passi per una strada? Non isvoltare alla solita cantonata; va innanzi. Là troverai quell'amico che andavi cercando al caffè, e che, svoltando alla cantonata anzidetta, non avresti trovato di certo. Là vedrai una bella merciaia, che ti venderà un fazzoletto, mezzo seta e mezzo cotone, che regalerai poscia alla cameriera della tua bella, col risparmio di tre lire. Là vedrai una sconosciuta; la seguirai, e ti buscherai un dolce sorriso da lei, o un duello coll'amante; le quali cose ti condurranno in un altro ordine di pensieri e di conoscenze, che tu non avevi, uscendo di casa, e che potranno anche mutare del tutto il tuo sistema di vita. Insomma, non ragionare innanzi di fare, ragiona dopo; non andar colla testa, ma coi piedi; fa conto insomma di giuocare a mosca cieca.
– Ma… – soggiunse Roberto Fenoglio, – e se dò del naso in qualche spigolo?..
– Gli è, – rispose gravemente Magnasco, – uno tra gli sconci di questa teorica, per altro bellissima.
– Orbene, mi proverò; – disse Roberto. E intanto si stiracchiava sul canapè, sbadigliando di bel nuovo.
Felice se ne avvide e fu sollecito ad alzarsi.
– Il tuo sbadiglio, – diss'egli, – mi prova che debbo partire. Diamine! le quattro suonate! Ed io già avevo dimenticato lo scopo della mia fermata! Fenoglio, sai? debbo chiederti un servigio…
– In manus tuas, domine. Ti occorre denaro? Bada che non potrei oggi imprestarti più di duemila lire.
– Che! non ho bisogno di denaro, sibbene di un servigio assai più rilevante e più delicato.
– Un duello?
– Quasi; vo' prender moglie.
– Ah, per tutti i diavoli! e come e quando nacque tal fiamma in te!
– La storia sarebbe troppo lunga a raccontarsi ora, – rispose Magnasco, – ed io ho bisogno di riposare almanco tre ore, innanzi di tornare da te.
– Tornare! ma come? perchè?
– Eccoti il negozio in poche parole. Io ho una cugina…
– La vedova?
– Per l'appunto; la conosci forse?
– No, in fede mia; me ne hai parlato tu stesso qualche volta, e ancora poco fa, mi dicevi…
– È giusto, vedi che bestia! Or dunque, mia cugina, la vedova, è una crudele quanto adorata beltà, e quando io le parlo di amore, ella si mette a ridere. Io le accenno cori, ed ella mi risponde picche.
– Che c'entro io nel vostro tresette?
– Tu puoi venire da lei; le ho già parlato di te, come d'uomo a modo, rispettabile, assennato…
– Ti par proprio ch'io sia tutto ciò; Felicino?
– Io ti presento a lei, – proseguì, senza turbarsi, Magnasco, – e tu perori la mia causa; non subito, ci s'intende, ma a poco a poco, con delicate entrature… mi capisci? Colla tua parlantina di Cicerone, puoi essermi molto utile. Le fai vedere che buon partito sarebbe per lei sposare un giovane par mio, gentile di modi, dolce di umore, e molto avveduto in materia d'interessi…
– E ti par proprio d'essere tutto ciò, Felicino? – chiese Roberto
Fenoglio.
Felicino anche qui fece orecchie da mercante, e tirò innanzi nella sua orazione.
– Mia cugina è ricca, e il suo fattore la deruba a man salva, la spoglia…
– Ah! codesto gli è grave! – interruppe Fenoglio, – spogliarla eziandio? Questo è un cumulare gli uffici di fattore e di cameriera, e capisco che, se la cugina è bella, siccome m'hai detto, ti spiacerà maledettamente che altri faccia questo uffizio presso di lei. Ah, ah, che te ne pare di questo?
– È stiracchiato più degli altri; – rispose Felicino. – Ma dunque, vuoi rendermi questo servigio?
– Ci stavo appunto pensando. Tu vuoi far di me una specie di Barbiere di Siviglia…
– Potresti supporre che…?
– Altro che supporre! lo credo, lo vedo; ma non importa. Se pensi che i miei talenti oratorî possano giovarti presso di lei… Ah, Felicino! io ero nato per essere oratore! Basta, ti servirò; tu mi hai dato il tuo specifico contro la noia, io ti son debitore del ricambio… se pur lo sarà! A che ora si va da lei?
– Sul mezzogiorno; ella è mattiniera come una allodola. Io dunque verrò da te alle dieci: ti vesti, andiamo ad asciolvere insieme, e poi, a piccoli passi, verso il tempio della diva. Addio, dunque, e rammenta i miei consigli…
– Abbandonarsi all'ignoto… – disse Fenoglio.
– Sicuro; – soggiunse Magnasco, – lasciare operare il caso…
– E ragionar co' piedi; – conchiuse l'altro. – Non dubitare, Felicino, ti imiterò fedelmente, servilmente, e comincierò a ragionare in tal guisa, facendo il tuo elogio alla bella cugina.
– Se' arguto, per un mandarino!
– A-ing-fo-hi!– rispose