L’effetto fu istantaneo: i due gusci si apersero lasciando uscire un solleticante profumo. Ritiratala dal braciere, il pirata sedendosi in mezzo alle erbe e dimenticando per un istante e la ferita e la situazione disperata in cui si trovava, assalì la colossale ostrica aiutandosi colla lama del kriss.
Non aveva ancor inghiottito venti bocconi che l’abbaiar di un cane venne a ferire le sue orecchie.
Abbandonò per un momento l’ostrica e tese le orecchie, per nulla contrariato dell’abbaiar di quell’animale, che forse poteva guidare qualche cacciatore, e chi sa, forse qualche indigeno.
– Ah! se fosse un indigeno della costa o un barcaiuolo che possedesse un canotto! – esclamò egli. – Saprei ben io trascinarlo fino a Mompracem per caricarlo poi d’oro, a meno che non diventasse un pirata. Possa non essere una giacca rossa, alla quale io nulla chiederò. Ferito, pur morente, finché l’energia e l’odio per la loro razza maledetta mi sosterrà, rifiuterò i loro aiuti, i loro veleni. Tutti ignorano su questo lembo di terra chi io mi sia; il selvaggio potrà ospitarmi senza paure.
Dopo di aver ascoltato alcuni istanti, Sandokan credette bene di aspettar la comparsa del cane o del cacciatore, terminando il pranzo, la cui carne molle ed eccellente gli solleticava l’appetito. Ad onta della ferita, sbarazzò mezzo guscio.
– Aspettiamo – disse egli distendendosi mollemente sulle erbe. – Forse l’uomo o il cane si mostreranno.
Gli abbaiamenti continuavano, talvolta avvicinandosi e talvolta allontanandosi. Pareva che l’animale seguisse qualche pista. Sandokan già s’impazientiva, quando udì una detonazione in lontananza.
– È una giacca rossa! – esclamò egli rizzandosi sulle ginocchia. – Che la tigre la divori!
Non si occupò più né del cane né del cacciatore, che d’altronde parevano allontanarsi e si coricò sotto un arecche. Rimase tutto il dì là sotto, conservando una immobilità completa, l’unica medicina occorrente per la ferita già pericolosamente infiammata per gli sforzi incontrati nella pesca e nella passeggiata sotto le foreste. Con tutto ciò la febbre tornò ad assalirlo con nuovo vigore, e prima che il sole tramontasse, batteva i denti, provava ancora atroci dolori e cominciava a delirare.
Quell’uomo che non avea mai saputo che fosse paura, l’ebbe a provare quando il sole calò al ponente e le tenebre cominciarono a invadere la foresta. Ebbe paura della notte, e, deciso a tutto affrontare anziché addormentarsi, raccogliendo le ultime forze si ripose in cammino, aggravando il male. Dove andava? Egli nol sapeva. Vagava sotto i grandi alberi provando brividi interminabili come fosse nelle regioni polari, con un vulcano nel cervello, cogli occhi di bragia e il kriss convulsivamente stretto. Avrebbe fatto paura al più coraggioso isolano se avesse avuto la sfortuna d’incontrarlo.
A poco a poco la marcia fra quei cespugli, quelle spine che gli strappavano gli ultimi lembi di veste, fra quei tronchi dove vi cozzava il capo senza vederli, fra quelle erbe taglienti come tante lame flessibili, divenne rapida.
Ebbe paura, lui, il pirata, Sandokan, la Tigre della Malesia, il cui solo grido avrebbe bastato per far fuggir mezza popolazione. Il delirio tornò ad impossessarsi di lui colla febbre, si credette inseguito e si mise a fuggire.
– Qua… qua… giacche rosse! Sono io… Sandokan, la Tigre… sono io! – urlava egli.
Precipitò la corsa senza sapere ove andasse, varcando ruscelli e cespugli, scalando alberi e attraversando paludi in miniatura, cadendo e risollevandosi come la sera precedente. Correva come un forsennato, invocando le giacche rosse colla spuma alle labbra, cogli occhi fuori dall’orbite. Volava incespicando ogni cento passi, non udendo più nulla attorno fuorché il celere martellar del cuore, senza provare i dolori della ferita, soffocati dal delirio.
Quanta via percorse, non poté mai saperlo. Il fatto si è che si trovò d’improvviso dinanzi a una prateria solcata da un fiumicello scaricantesi in un ampio stagno, nel fondo della quale, in riva alle acque, sorgeva qualche cosa di nero che pareva una abitazione.
Sostò un momento, anelante, senza forza di gridare, poi si precipitò nella prateria continuando la sua sfrenata corsa. Fece cento, forse duecento passi colla schiuma alle labbra, le mani nell’aria, poi rotolò come fosse fulminato al suolo e vi rimase immobile, irrigidito, lasciando sfuggir un ultimo gemito che si perdé fra le tenebre della notte.
CAPITOLO VII. La Perla di Labuan
All’indomani, dopo la corsa insensata della notte, quando tornò in sé, era chiaro. Il sole, appena appena sorto, illuminava la prateria, i lontani alberi della foresta, il ruscello, lo stagno, l’abitazione intravveduta la sera precedente e di più una mezza dozzina di uomini che curvi su di lui spiavano ansiosamente ogni suo movimento. Egli si stropicciò gli occhi e fece un gesto per fuggire.
– Povero uomo! – esclamò una voce commossa, che, quantunque parlasse la lingua delle giacche rosse, non aveva quell’accento secco e imperioso che il pirata solea credere.
Egli si scosse tutto. Credette di essere in preda a un sogno, tornò a stropicciarsi gli occhi, poi esaminò a uno a uno quegli uomini sempre curvi su di lui, che parevano interessarsi del suo stato.
Cinque erano indigeni dai volti stupidi e insignificanti, il sesto un bianco. Se l’occhio non s’ingannava, pareva avesse una cinquantina d’anni. Alto, ben fatto, ma con quella rigidezza che è il distintivo particolare della razza anglo-sassone, poteva essere ancora un bell’uomo ad onta dell’età. Un volto simpatico, aperto, benché incorniciato da capelli rossi, occhi intelligenti, due mani aristocratiche anzi che no e delle braccia che dovevano esser dotate di una forza non comune. Vestiva semplicemente: un gran cappello bianco sul capo – una cupola circondata da un velo – una giacca di stoffa azzurra, pantaloni di pelle e lunghi stivali a risvolta completavano l’abbigliamento. Non vi era da ingannarsi sulla sua origine. Sandokan lo riconobbe per una giacca rossa, pure non tentò di fuggire. Comprendeva che una nuova fuga, un giorno ancora passato nelle foreste, avrebbe causato infallibilmente la morte. Era un Inglese che lo raccoglieva, meglio; il gioco non sarebbe riuscito più ridicolo. Un Inglese curare Sandokan, la Tigre della Malesia! Vi era ben da ridere; la storiella raccontata a Mompracem avrebbe senza dubbio furoreggiato.
D’altronde, quell’individuo pareva un galantuomo. Lo avrebbe curato e nulla di più, come si cura un ferito trovato sulla via. Non lo conosceva, nessuno sapeva che egli avea approdato a quelle coste in seguito a una moschettata e ad una tremenda rotta. Le risorse non mancavano per farsi credere un onesto marinaio, caduto sotto il piombo dei pirati di Mompracem. Tuttavia, per ingannar meglio il valentuomo, cercò di rizzarsi come per fuggire.
– Povero uomo! – ripeté la medesima voce. – Non movetevi, siamo amici. Verrete meco!
– Lasciatemi! Lasciatemi! – esclamò Sandokan. – Non ho nulla… più nulla da darvi.
– Al diavolo! Non siamo già pirati noi da derubarvi. Vi sembra che ne abbia il volto adunque? – disse l’Inglese sorridendo. – Orsù, calmatevi, nessuno vi torcerà un capello.
Sandokan lo guardò mezzo diffidente e con l’occhio torvo, quasi volesse leggere nell’animo di quell’uomo.
– Non siete dunque pirati, voi? – chiese egli con accento sì ingenuo da convincere un dayak stesso.
– Non ve lo dissi? Andiamo, povero uomo, rimanendo all’aperto morrete. Io vi curerò.
Sandokan, malgrado cercasse esser calmo, trasalì e strinse le pugna. Si avrebbe detto che fosse li li per ripigliar la fuga attraverso le foreste malgrado la ferita, ma si arrestò e chiuse gli occhi per nulla vedere, soffocando l’ira che gli saliva alla