«E dovete sapere,» soggiunse spedita spedita una magra, lunga, di brutte sembianze, chiamata Andolina Benincasa, «e dovete sapere, che in que’ tempi Isolda piangeva, quando anche la prendeva vaghezza di ridere, e la cagione la sa il medico saracino Sidi Abdallah che la guarì dalla fistola.»
«Andolina, paionvi cose queste da tenersi lungamente celate ad amiche quali noi siamo? Per poco sta ch’io non mi corrucci con voi,» riprese sorridendo Adelasia; «ma di grazia rammentate, Matelda, la canzone del Menestrello: il caso merita bene di sapersi intero.»
«Non so,» rispose Matelda «perchè non soglio faticarmi la mente col ritenere tanto tristi versi quanto furono quelli del Menestrello; pure proviamo.» E qui poneva l’indice alla fronte, e chinava la testa in atto di riunire tutta l’anima in una sola facoltà, finalmente dopo aver cominciato, desistito, e ripreso da cinque e più volte: «Ecco!» soggiunse ella «diceva così:
«Brillano silenziose in ciel le stelle
Di benigno splendor,
«Ma le tue luci ancor
Brillan più belle;
E se suffuse di pietose stille
Rimira il Trovator
Le gaie del tuo amor
Belle pupille,
Brillin pur luminose in ciel le stelle
Di benigno splendor,
Che le tue luci ancor
Brillan più belle…»
Isolda, che intenta a vagheggiarsi il volto non aveva fin qui posto orecchio a queste parole che si mormoravano a breve distanza da lei, appena ricovrati i sensi dalla vanità che la occupava, udì quegli ultimi versi, e subito dubitò della beffa: onde fattasi presso Matelda con un suo riso di dispetto le domandò: «Madonna, se Dio vi aiuti, poichè per vostra ventura avete udito i Trovatori del secolo passato, vorrestemi dire, la mercè vostra, se valorosi quanto i moderni essi fossero?»
«Tengo per fermo, rispose tutta stizzosa Matelda quantunque per la età non gli abbia potuti udire io, che i moderni Trovatori sieno tanto al di sotto agli antichi nella gaia scienza, quanto le moderne gentildonne sono al di sopra delle antiche in iscortesia.»
«E voi ci offrite prova vivente della differenza, Matelda.» riprendeva Isolda, e stava per aggiungere, allorchè Adelasia, temendo non venissero a brutte parole, troncò quel ragionamento dicendo:
«E la povera Gismonda!» e sospirò. «Davvero che ricava la bella mercede del suo grande affetto!»
«Non andò mai così bene a sposa gioiello, siccome a lei il rimprovero di Yole,» soggiunse Matelda, cui forse fu grato trovare altro soggetto che dilungasse l’attenzione delle circostanti dal proposito dei suoi anni.
«Ella ha voluto regnare sola nel cuore della nostra signora» disse Andolina; «ella ha voluto vincerne tutte per soverchiarci, perchè sebbene in volto modesta, credetemelo, è superba quanto l’Angiolo delle tenebre. Ha scosso l’albero, ora mangi il frutto che n’è caduto.»
«Santa Nimfa! S’ella è superba!» disse Isolda. «lo per me credo la sua superbia uguale alla sua vanità. Se le proponete fare alcuna cosa, ella vi risponde: ne terrò motto a Yole; se la ricercate perchè si affligga, ed ella perchè Yole è afflitta; e Yole sempre, e sempre Yole, ostentando così tenere proposito di lei, siccome di sorella o di amica, anzichè di sovrana o padrona.»
«Il mal vien dalla radice,» rispose Adelasia, «nè posso darmi pace come costei abbia scelta per favorita la nostra signora. Guardimi Dio da sparlare di tale amica quale mi si professa Gismonda; ma per me la reputo la più insipida gentildonna del Regno. Pel sangue poi credo che il nostro valga bene il suo, Matelda.»
«Sant’Agata benedetta! che dite mai, Adelasia? Io ho inteso le mille volte narrare dal Marchese Pier Corrado mio nonno, di buona memoria, la famiglia di Gismonda discendere da linea bastarda della casa normanna, cioè, se non erro, da Clemenzia Contessa di Catanzaro, figlia illegittima del Re Ruggiero; e valga il vero, comunque ella vanti la impresa normanna, voi potrete osservare le fasce rosse e bianche in campo d’oro tramezzate dalla sbarra della bastardigia; ma il nostro, Adelasia, ma il mio, Adelasia… ah! il mio mi scorre purissimo nelle vene quanto quello del Re. I miei antenati di Sicilia hanno trasmesso ai loro nepoti la impresa del monte di argento, e del lion d’oro in campo azzurro, gloriosa, com’essi la riceverono dai loro antenati di Arragona; poichè importa che sappiate, Adelasia, la famiglia Arena derivare dall’Arragona.» Tutto questo discorso velocemente parlava Matelda, alla quale la gran voglia di mordere altrui ed esaltare sè stessa fece obliare, che il Marchese Pier Corrado suo nonno, di buona memoria, era da ben trent’anni defunto, come ne faceva fede il suo fastoso sepolcro nella cattedrale di Palermo.
Ed ecco che queste frivole, abbandonato affatto il soggetto di Gismonda, si lanciarono impetuose a favellare di fasce nere in campo di argento, e di sbarre di argento in campo nero, e di Lioni rampanti, e di Pantere passanti, e scudi, e cimieri, e corone. Matelda poi, siccome quella che sentiva assai addentro nella scienza del Blasone, fece maravigliare le compagne col dare la spiegazione dell’arme Bonaccolta che fa fascia rossa, e testa di porco nera, tenente sul grifo croce rossa in campo di argento.
Appena ebbe finita Matelda la sua dimostrazione, che tutte le compagne le si strinsero attorno, tanto ella piacque, onde narrasse loro qualche bel fatto antico. Madida fece lungamente sembiante di ricusare; alla fine, mostrandosi vinta dalle istanze loro, parlava:
«Ma che credete voi, che io abbia per le vene storie in vece di sangue? Io faccio conto di avervene fino adesso contate ben mille, e la vostra sete cresce a proporzione che vi porgo da bere. Che faro adunque? Ripeter le antiche tornerebbe in vostro fastidio, e mio; narrarne di nuove non mi riesce agevolo, poichè tante ne furono dette da me: pure,» e qui sollevò la persona in atto contegnoso, «pure fidata alla cortesia vostra, mie leggiadre e belle ascoltatrici, non dubiterò pormi in pelago, sicura che la benignanza delle vostre stelle mi dimostrerà il porto dove possa ricovrare la debole navicella del mio ingegno.» Dopo questo proemio, tenuto per un capo di opera di eloquenza, Matelda soprastette alquanto pensosa, e dopo breve ora volgendo gli occhi attorno così prese a favellare:
«E’ dovete sapore, donne mie care, che nei tempi nei quali l’Amira Aureliano regnava su Roma, donde aspramente perseguitava i fedeli di Cristo, un certo Solino Prefetto dei soldati reggeva a suo nome la Sicilia, ed aveva tolto a dimorare nella Conca d’oro, la bella Palermo, sopra tutte le altre città della Isola felicissima e bella. Ora questo Prefetto non diverso dal suo feroce signore, anzi, siccome nei servi suole tuttogiorno accadere, affatto a lui somiglievole, con frequenti rapine, e feroci martirii, affrettò il punto della vendetta di Dio; il quale, quantunque paia venire tardi, piacendo alla sua misericordia dar tempo al peccatore affinchè si ravveda, nondimeno giunge inaspettato, e tremendo. Stavasi dunque certa sera il crudele Solino seduto sur una loggia del suo palazzo a rimirare il sole cadente. Una turba di uomini e di donne gli dimorava attorno cantando, suonando, e a mano a mano copiosamente bevendo preziosissimi vini, che quivi aveva fatto imbandire, allorchè di repente rizzatosi in piedi tutto smorto nel viso, tolto pel braccio un suo paggio che gli stava vicino: – Vedi, Lampridio, gli disse, l’ultimo raggio del sole? Questa sera apparisce sanguigno; che Allah e il suo Profeta ci guardino, ma questo raggio, piuttostochè addio, sembra maledizione… guarda fisso… fisso… egli sparì… egli non ha parlato… ma una voce che non è entrata per gli orecchi ha detto al mio cuore ch›io non vedrò più i raggi del sole. – Mentre quel tristo, compunto dalla coscienza, in questo modo parlava, e susurrava bassamente scellerate preghiere, nel mezzo della città franò con orribile rumore gran parte del terreno, e da quella rovina ecco s›innalza un densissimo e fetidissimo fumo, il quale gradatamente diradandosi lasciò vedere un Mostro che la gente ha poi chiamato il Gran Diavolo di Sicilia, le sembianze del quale furono queste: sei palmi era alto, ed aveva la testa tutta calva, se non che su la nuca