Il genuflesso, volgendo la testa, vide sopra di sè questo uomo, che lieto del suo misero stato non aveva potuto frenare il riso schifoso di cui qui sopra abbiamo fatto menzione; gli corse involontariamente la mano alla fronte, e cominciò il segno della salute, che poi invano si sforzò di compire: allora dimise la fronte, e mormorò… forse una preghiera; – ma certo ella fu detta con l’amarezza della bestemmia. Di lì a poco rialzando il volto, s’incontrava di nuovo in colui, che la sua compassione in nessuno altro modo sapeva manifestare fuorchè col sorriso, ed egli di nuovo si volse e guardò il teschio… poi lui… e poi il teschio, e da capo lui; nè quel riso cessava… All’improvviso balzato in piedi, lo afferrò per la gola; e bestialmente feroce lo atterrò, gli pose le ginocchia sul petto, e fece atto di strangolarlo. Ora la vita del Conte di Cerra era giunta al suo fine, dove non lo avesse sovvenuto il caso. Il teschio, smosso dalla sua caduta, balzava a terra mandando un rumore che parve un grido lamentoso, e rotolava fino su gli occhi dell’uomo che lo teneva per la gola: questi, dimentico di ogni altra cosa, lasciava la presa, correva anelo a raccoglierlo, lo guardava attentamente per vedere se si fosse in alcuna parte guastato, e veloce come lampo nella cassetta, e quindi nel tabernacolo, lo riponeva. Intanto il Conte di Cerra rilevatosi si aggiustava le vesti scomposte, mostrando nella faccia livida la paura del passato pericolo.
«Conte di Caserta,» dopo alcun tempo disse il Conte di Cerra accostandosi all’uscio della camera; «ditemi di grazia: che cosa farete ai vostri nemici, se tale vi comportate con gli amici e fedeli servitori vostri?»
«Anselmo,» rispose il Conte di Caserta, «vi ho detto io forse che dileggiate la mia miseria, e scherniate il mio dolore, e mi suscitiate nell’anima un’ira più profonda dei miei rimorsi? Doletevi con voi stesso, perocchè conoscete quali passioni imperversino qua dentro:… Da lungo tempo ardono… ma il cuore; non è peranco tutto cenere…»
«Prendetevela con la natura, Conte di Caserta, che mi ordinò in modo da ridere, dove altri piange. Ma parvi questa cosa da piangere, vedervi tutte le notti tormentarvi innanzi un teschio inanimato, che non può sentire le vostre bestemmie, o le vostre preghiere: nè può maledirvi, nè perdonarvi? Io ve lo ho già detto le mille volte, e vel ripeto adesso: voi ne perderete l’intelletto.»
«E conservarlo giova? E perderlo nuoce? Il rimorso vive con lui; e perduto, gli sopravvive. Un giorno l’aveva intero, capace di tutto comprendere, nè fui meno sventurato; ora io l’ho più che a mezzo perduto, nè mi sento più felice per questo.»
«Ma via, concedete una volta che io vi tolga dagli occhi quell’ossame, che di giorno in giorno vi diminuisce la ragione. – Pensate alfine, che fu capo di donna che tradì il letto maritale, e portò nel suo seno…»
«Taci per l’amore che hai per la vita… taci… Il tuo ufficio contro questa creatura terminò col colpo che le tolse la vita. Io ti ho comandato essere il suo assassino, non già il suo detrattore. – Basta. Io l’ho punita come colpevole, ora amo fingermela innocente.»
«Allorchè da giovanetto studiava le leggi nella Università di Federigo, intesi, Conte, che chi vuole il più deve necessariamente volere anche il meno. Mi deste il diritto di ricercare nelle sue viscere, – e vorrete negarmi adesso quello di ricercare nella sua fama?»
Il Conte di Caserta si accostò alla parete accennando cadere; lo sostenne subito il Conte di Cerra che aggiunse:
«Oh! di ciò dunque non si faccia più parola. Messere, se alcuna cosa può in voi la preghiera di un fedele servitore vostro, abbandonate questi luoghi spaventosi, date alla terra quello che appartiene alla terra, – le reliquie dei morti. Voi sapete se adesso sia più che mai necessario star vigilanti, e avere il senno ben retto… In questo modo operando, i vostri disegni di vendetta contro colui, temo forte non vadano a finire col diventare voi stesso folle.»
«Ah! – Molto vi preme la mia vendetta? Molto la conservazione del mio intelletto? Gran mercè!… Gran mercè! Cerra, io ve l’ho detto più volte, siete sottile, e frodolento, quanto lo spirito del male; pure gli accorgimenti vostri tornano inutili con me: io da gran tempo vi conosco; deponete la lusinga d’ingannarmi; non vi date studio di parlare con tant’arte. Voi temete che io perda il senno, – e lo temete per me? Lo splendore di vostra casa era decaduto, e i tempi presenti non concedevano sollevarsi con pubbliche o con private virtù. – —Voi non pertanto la riponeste nell’antico splendore. – Io vi ho fatto Gran Camerlingo del Regno, e ricco, e potente; – tristo eravate già troppo per non osare incolparmi sfacciatamente delle vostre scelleraggini. Voi temete ch’io perda il senno, – e lo temete per me? – E nessuna cura vi stringe, che io nella piena dell’affanno sveli con un solo detto tal cosa, per la quale le nostre teste cadrebbero sotto la scure del carnefice? E nessuna, ch’io, divenuto soggetto di compassione e di riso, non abbia più facoltà di disporre in favor vostro di quei beni, che adesso non posso più lasciare al mio figlio, perchè voi gli avete portato la morte fin colà dentro dove la natura ha posto il luogo acconcio all’opera della vita?
«Conte, che vi giova affannarvi a conoscere il cuore dell’uomo? Forse i vostri dubbii sono veri, forse anche falsi. – È prudenza questa, logorare la ragione e il tempo in tale arte, della quale il dubbio è il frutto meno amaro? Dio non volle darsi a conoscere agli uomini, e si avvolse col mantello dei cieli profondi. Volete voi penetrare i cieli, e investigare i pensieri di Dio? e, volendolo, lo potrete? La natura non ha voluto che il cuore nostro fosse manifesto, e lo ha avvolto dentro un viluppo di ossa e di carne. Qualunque più temerario pensiero della vostra anima immortale potrà mai, Conte di Caserta, trapassare questo riparo di creta? Contentatevi dunque delle opere, e non vi curate dei sentimenti. Tutto questo discorso io ho voluto tenervi, onde non già abbiate di me migliore opinione, ma perchè voi l’abbiate minore di voi quando saprete che il vostro figliuolo vive.»
Il Conte di Caserta divenne pallido come la morte, vacillò, e stette lungo tempo pensoso; poi si fece a lenti passi verso il Cerra, lo prese pel braccio con la sinistra, e con la destra gli fece tale atto, che la favella, quel nobile attributo che distingue l’uomo da ogni altro animale, sembrò quasi sdegnosa di profferire. Il Conte di Cerra, per quanto visibilmente si sforzasse, non potè di tanto reprimere quel suo riso, che due o tre volte non gl’increspasse la faccia; nondimeno si contenne, e parlò:
«E che, Caserta? – Tremate voi così presto essere ridivenuto padre? Non avete voi detto ch’egli è figlio vostro? Or dite, via, che io l’ho spento nelle viscere materne, e che la ingordigia di acquistare conduce i moti dell’anima mia! Presuntuoso che siete, rinunciate alla conoscenza del cuore umano!»
«Egli vive! Tu lo hai detto… dunque tu mi hai tradito? Va, Anselmo, va per l’amore di Dio, uccidilo avanti che la notte sparisca… prevaliti di queste ore di notte che avanzano… egli… egli è un monumento di peccato… egli non è mio figlio… non è mio figlio… bisogna che muora.»
«Bisogna che viva, Conte di Caserta.»
«Da quando in qua ricusa Anselmo di fare il sicario? Lo conoscerò, lo ucciderò io stesso in questa medesima notte.» – E così dicendo si precipitava verso la porta: gli si parò davanti il Conte di Cerra, e gli disse ad alta voce: «Importa che voi mi ascoltiate.»
Qui cominciava tra loro un velocissimo conversare in tanto basse parole, che appena gli avrebbono potuti sentire alla distanza di quattro o sei passi; ma frequenti e feroci erano i gesti, terribili