Il capitano batté un formidabile pugno sulla tavola, poi vuotò di un sol colpo un bicchiere di caña.
– Rayo de Dios! – esclamò poi gettando via il berretto che gli copriva il capo. – E perché non me lo avete detto prima, giovanotto? Ho fatto dei viaggi attraverso il Pacifico sul suo Sarmento, come secondo di bordo. Grande marinaio, il capitano Fernando! Nessun uomo di mare poteva guidare una nave meglio di lui…E voi siete i suoi figli?
– Sì, capitano, – rispose don Pedro.
– Poveri ragazzi! Mare traditore che insidia sempre gli onesti naviganti! È stato divorato dagli isolani della Polinesia, è vero?
– Ma no, capitano Ulloa.
Un altro pugno formidabile che fece oscillare la bottiglia di caña e saltellare il bicchiere, piombò sulla tavola.
– Mil diables! – esclamò – non è stato divorato dai neozelandesi e dai canaki della Nuova Caledonia o delle isole Salomone? Eppure lo affermano tutti!
– Su quali documenti? – chiese don Pedro.
– Señor, – disse il capitano – voi avete giurato di farmi perdere la pazienza, a quanto pare. Vi prego di spiegarvi. È morto quel bravo capitano o è ancora vivo? Non dimenticate che era il mio migliore amico.
– A quest’ora deve aver resa l’anima a Dio, – rispose il giovane con voce triste. – Almeno così risulterebbe dallo scritto trovato in un barile, dal capitano Ramirez.
– Ramirez! – esclamò l’uomo di mare, corrugando la fronte. – Un pessimo soggetto che si è arricchito massacrando o facendo morire di fame quei disgraziati di cinesi che si lasciano arruolare per venire qui a scavare le miniere di guano. Conosco quel pirata che disonora gli onesti marinai…Avanti señor: mi avete parlato di un barile e di un documento: che cosa volevate dire?
– Che mio padre, dopo quattro anni, ha dato sue notizie. – rispose don Pedro.
– Quali? – gridò il capitano.
– Abbiate la compiacenza di ascoltarmi, don Josè Ulloa, – disse il giovane.
– Sono a vostra disposizione, señor, – rispose il comandante dell’Andalusia ricaricando e riaccendendo la pipa. – Ho tempo da perdere finché vorrete. Questo racconto, che riguarda uno dei miei migliori amici e che forse chiarirà un mistero che ha suo tempo ha molto impressionato tutti i marinai cileni, mi interessa straordinariamente.
– Quindici o venti giorni or sono, il capitano Ramirez che tornava da Canton con un carico di arruolati cinesi…
– I suoi schiavi, che quel miserabile si diverte a tormentare, – lo interruppe il comandante dell’Andalusia con disprezzo profondo. – Vi prego continuate, don Pedro de Belgrano.
– …incontrava nei paraggi dell’isola Lifu, una delle maggiori della Caledonia, un barilotto galleggiante sul mare.
– E che cosa conteneva?
– Un documento scritto in doppio originale, in inglese ed in spagnolo, e due pezzi di scorza d’albero sui quali ci sono dei segni misteriosi che invano ho cercato di decifrare.
– Avete quella corteccia?
– Sì, capitano.
– Fatemela vedere, prima di tutto. Conosco la Nuova Caledonia. Brutta isola, dove non si può fare una passeggiata o una partita di caccia, senza correre il rischio di venire mangiati.
Don Pedro si frugò in una delle ampie tasche del soprabito ed estrasse un involto.
– Ecco, capitano, – disse – esaminate pure questa corteccia; poi continuerò il mio racconto.
Aprì la carta che avvolgeva il talismano e mise davanti al capitano un pezzo di corteccia biancastra che portava incisi e coloriti in rosso tre figure che rassomigliavano a dei grossi piccioni.
– I notù! – esclamò il capitano. – Sebbene malamente incisi li riconosco benissimo.
– Che cosa sono? – chiesero ad una voce don Pedro e Mina con una certa ansietà.
– Ecco, – rispose il capitano – i notù che io ho già cacciato sulle coste della Nuova Caledonia, sono dei bellissimi colombi e posso dire anche molto buoni, grossi quanto una delle nostre galline, con le penne color bronzo, che vivono di preferenza nel più fitto dei boschi, sicché e molto difficile distinguerli. Il loro grido è così forte che rassomiglia al muggito di un bufalo. Quello che vi posso dire, ragazzi miei, è che sono tenuti in molta considerazione dai canaki della Nuova Caledonia, non saprei se per la bellezza delle loro penne, se per la delicatezza delle loro carni o per qualche altro motivo a me ignoto.
– E questa corteccia? – chiese don Pedro.
– È un pezzo di niaulis, – rispose il capitano dopo averla osservata attentamente. – La corteccia di un albero che si stacca facilmente a lunghe strisce.
– Insomma nulla di straordinario in tutto questo, – disse Mina.
– Adagio, señorita, – rispose il comandante. – Questo disegno che rappresenta tre notù può avere il suo valore. Ditemi, prima che mi pronunci definitivamente, che cosa diceva il documento contenuto nel barile trovato da quel briccone di Ramirez?
– Volete leggerlo?
– L’avete con voi?
– Sì, una copia, quella scritta in lingua spagnola.
– E l’altra scritta in inglese?
– È nelle mani del capitano Ramirez.
– Con che diritto? – chiese don Josè.
– Leggete il documento prima, – rispose don Pedro.
Il capitano dell’Andalusia depose la pipa, tracannò un altro bicchiere di caña, poi prese delle carte ingiallite, che il giovinetto aveva levate da un portafoglio di pelle di caimano.
«Datato oggi, ventiquattro marzo 1866 – lesse il capitano. – Nel momento di comparire davanti a Dio, affido alle onde dell›oceano Pacifico i sette barili che ho potuto salvare dal naufragio della mia nave Sarmento appartenente al dipartimento marittimo del Callao, naufragata il 27 gennaio 1863 sulle scogliere della baia di Bualabea. Ho lasciato a Valparaiso due figli, Pedro e Mina, che potrebbero un giorno diventare ricchissimi se seguiranno le mie istruzioni. Accolto dalla tribù dei Krahoa, indigeni antropofagi che mi hanno considerato come un figlio delle onde e che mi hanno nominato loro capo, ho trovato una miniera d’oro che per quattro anni ha reso milioni e milioni di piastre. Mi trovo nell’impossibilità di calcolare la ricchezza del deposito che io ho fatto rinchiudere nei fianchi della Montagna Azzurra, dopo averla tabuata. Unisco al documento un pezzo di corteccia con tre notù, insegna della tribù, fatto in doppia copia nel caso che i miei figli si decidano a venire a prendere il tesoro. Fra pochi giorni sarò morto perché una freccia, probabilmente avvelenata, mi si è piantata profondamente nel petto durante la festa del pilù-pilù. Qualunque navigante raccolga uno dei barili che ho fatto gettare in mare dalla foce del Diao, li consegni ai miei figli in Valparaiso, calle dell’Alcalà.
«Capitano Fernando de Belgrano».
Il comandante dell’Andalusia, letto il documento, era rimasto silenzioso, guardando ora don Pedro e ora Mina.
– Che cosa ne dite, don Ulloa? – chiese il giovanotto, impaziente di rompere quel silenzio.
– Dico che questo è un colpo di fulmine che vorrei che fosse toccato a me, – rispose il lupo di mare. – Si parla di milioni. Valgame Dios! C’è da far girare la testa al più flemmatico uomo d’America!
– Che cosa fareste, capitano? – domandò don Pedro.
– Spiegherei immediatamente tutte le vele, e me andrei, al più presto possibile nella nuova Caledonia, dovessi farmi mangiare da quei cannibali, una gamba