La principessa dell’Assam era una splendida donna, appena venticinquenne, dalla pelle leggermente abbronzata, dai lineamenti dolci e fini, con occhi nerissimi, profondi, e capelli ancora più neri, assai lunghi intrecciati con fiori di mussenda dalla tinta sanguigna ed a gruppi di perle dei banchi di Manahar.
Indossava un magnifico vestito di seta rosa, tutto ricami d’oro, e portava lunghi calzoni di seta bianca che facevano vivamente spiccare le rosse babbucce a punta rialzata, pure ricamate in oro con piccoli diamanti. Yanez aprì le robuste braccia, stringendosi al petto la piccola rhani.
«Ah, mio signore!…» esclamò Surama, lasciandosi quasi portare verso una ottomana bassa, tutta scintillante di ori con grandi cuscini, di varie tinte, ricamati.
«Quando tu, mia piccola moglie, mi vedi prendere il fucile, diventi inquieta» disse Yanez ridendo. «Non parto mai solo, e poi tu sai che anche le tigri più feroci, anche le solitarie, non hanno mai avuto buon giuoco con me». «Trascuri gli affari del nostro stato, mio signore».
«Non abbiamo dei ministri che ci divorano diecimila rupie all’anno per lasciarsi poi stupidamente avvelenare? E poi tu sai che ho il sangue irrequieto delle Tigri della Malesia. E Soarez?» «Dorme». «Chi lo veglia?»
«La sua nutrice. La porta della sua stanza è sbarrata, ed al di fuori vegliano due rajaputi con due molossi del Tibet. Nessuno oserebbe avvicinarsi».
«Lo credo. Quei cani sono così forti da atterrare perfino gli orsi. Andiamo a vedere nostro figlio». «Non far rumore: dorme». «E lo lascerò dormire tranquillo» rispose Yanez.
S’alzarono tenendosi quasi abbracciati, ed aprirono la porta che era in parte nascosta da una tenda di pesante broccato. Si trovarono in una stanza appena illuminata, colle pareti coperte tutte di seta bianca ed il pavimento di fitti tappeti a tinte smaglianti provenienti dal Caschmir, con dei divanetti che si seguivano tutto intorno.
Nel mezzo, in una culla di filo d’argento, che rassomigliava ad un pesce, coperto da una leggerissima mussola di seta, dormiva il figlio dei sovrani dell’Assam.
Yanez aveva alzata la mussola guardando il bambino che dormiva placidamente, con una mano tesa, come se impugnasse qualche arma. Non aveva che due anni, ma era già assai sviluppato per quell’età. La sua pelle era leggermente diafana, con quei riflessi madreperlacei che si riscontrano sui volti delle creole americane, di Cuba e di Portorico, dovuti al sangue incrociato. I capelli erano nerissimi come quelli di sua madre, tutti inanellati e già assai lunghi.
«Si direbbe che sogna future battaglie» disse Yanez, lasciando ricadere lentamente la mussola. «La sua manina fremeva come se premesse su qualche carabina».
«È figlio tuo e diverrà un giorno un grande guerriero, mio signore» disse Surama. «Noi non sapremo domare gli impeti del suo sangue».
«Lo manderemo a Sandokan, se quel brav’uomo sarà ancora vivo. Tutte le Tigri della Malesia invecchiano» disse Yanez, con un sospiro. «La Tigre camperà cent’anni». «Gliene auguri troppi, Surama». Le passò un braccio attraverso la vita sottile e la ricondusse nel suo studio. Era diventato assai serio.
«Sai, mia piccola moglie, che il nostro stato comincia a camminare male? Ha qualche ruota guasta che bisogna fare accomodare al più presto, o noi morremo tutti avvelenati». «Sono spaventata, Yanez: tremo sempre per te e per Soarez».
«Ed io per te, Surama. Ora sono i nostri ministri che mandano a passeggiare nel kailasson da dove non si ritorna più, e domani, o fra un mese, non toccherà la nostra volta? Questi delitti mi hanno assai impressionato». «Eppure il popolo ci ama, Yanez».
«Non dico il contrario, ma il popolo non ha niente a che fare con questi sinistri avvelenatori». «Tu hai un sospetto, mio signore. Lo leggo nei tuoi occhi».
«Sì, che Sindhia sia fuggito da Calcutta, dopo d’aver ricuperata la ragione, e che ora tenti, a sua volta, di levarci dalla testa le nostre corone».
«Anche a me era venuto, e più volte, sulle labbra, quel nome. Sindhia non deve essere meno perfido di suo fratello, che per divertirsi, fucilava i suoi parenti». «Che cosa mi consigli di fare?»
«Di mandare Kammamuri a Calcutta per accertarsi se Sindhia si trova ancora là oppure se è fuggito».
«E lo incaricherò anche di un’altra missione» disse Yanez, il quale si era bruscamente alzato, mettendosi a passeggiare. «Farò spedire un dispaccio cifrato a Labuan e farò accorrere al più presto Sandokan ed i suoi invincibili Tigrotti. Con loro e coi montanari di Sadhja, che sono sempre fedelissimi a te, daremo del filo da torcere a quel pazzo sanguinario». «Vuoi far venire Sandokan?…»
«Credo che sia necessario, mia piccola moglie. Il nostro trono oscilla troppo. Fra venticinque giorni i Tigrotti di Mòmpracem potrebbero giungere qui col loro capo». «Ma verrà Sandokan?»
«Che cosa vuoi che faccia a Mòmpracem, ora che laggiù tutto è tranquillo? Deve annoiarsi mortalmente. Tu sai che quell’uomo non vive che per menare le mani, sparare carabinate e pistolettate. Salperà subito col suo piccolo incrociatore e filerà attraverso l’Oceano Indiano a tutto vapore». In quel momento fu bussato alla porta.
«Passate» disse Yanez, mettendo però istintivamente una mano sul calcio della pistola che era passata attraverso la fascia. «Sono io» rispose una voce forte e sonora. Surama ed il portoghese avevano mandato due grida di gioia: «Tremal-Naik!…»
CAPITOLO TERZO: IL CACCIATORE DI TOPI
Un momento dopo entrava nel salottino il famoso “Cacciatore della Jungla Nera” e dei thugs delle Sunderbunds. Era un bellissimo tipo d’indiano bengalino, già più che quarantacinquenne, dalla persona elegante e flessuosa senza essere magra, dai lineamenti fini, energici, la pelle lievemente abbronzata come gli indiani che escono dalle alte caste, non contaminate dalle impurità dei paria. Vestiva come i ricchi indiani modernizzati dalla Young-India, i quali ormai hanno lasciato il dootée e il dubgah per il costume anglo-indù, assai più comodo: giacca di tela bianca con alamari di seta rossa, fascia ricamata altissima sorreggente due lunghe pistole, calzoni stretti pure di tela bianca, e sul capo un piccolo turbante variegato.
«Da dove vieni?» gridò Yanez, tendendogli la mano, subito imitato da Surama. «Credevo che avessero avvelenato anche te».
Sulla fronte dell’indiano passò come una nube, ed i suoi occhi nerissimi ebbero un lampo.
«Come vedete, amici miei, sono ancora vivo ed in perfetta salute» rispose l’indiano. «Mi sono ben guardato dal fermarmi in qualche albergo per vuotare una bottiglia di birra inglese. Per Siva! La cosa è grave». «È a me che lo dici?» disse Yanez. «Diciamo invece gravissima. Dove sei stato?»
«Ho dato la caccia all’avvelenatore del tuo primo ministro insieme a Timul. Quel giovane sa trovare una pista fra mille, in modo assolutamente stupefacente». «E l’hai scoperto?» chiesero ad un tempo la rhani ed il portoghese.
«Vi dico che qui, nella vostra capitale che sembra tanto tranquilla, si congiura per strapparvi probabilmente la corona».
«Ma dove sono questi congiurati?» gridò Yanez. «Dimmelo e li farò arrestare immediatamente».
«Sarà un affare un po’ difficile» rispose l’indiano, sedendosi su una poltrona a dondolo. «Conosci tu il sottosuolo della tua capitale? Scommetterei una rupia contro mille che lo ignori».
«Io so che il terreno che regge i nostri palazzi, le nostre pagode, i nostri monumenti, è composto di buona terra mista a lastre di pietra».
«Non hai mai udito parlare delle immense cloache che corrono e che si diramano sotto questa città?»
«Sì, ma io mi sono ben guardato di cacciarmi dentro a quei budelli pieni di microbi pericolosi. Oh!… Le cure dello stato!… Non mi lasciano mai un momento di tempo». Surama e Tremal-Naik erano scoppiati in una risata.
«Già», disse