Solo la contessa Matilde, fra le comuni distrazioni, non riusciva a nascondere il proprio dolore. Ella era venuta via dalla città quasi fuori di sentimento, tanto forte era stata la prova a cui l’avevano messa. Con l’animo pieno di spavento e di rimorso, sul punto di partire per la campagna, aveva riconosciuto che la pena meno sopportabile non le veniva più dalla lontananza della sua bambina, ma dal tradimento di Raimondo. Come poteva più metterlo in dubbio? La verità non le si era improvvisamente svelata, all’annunzio che egli andava al Belvedere, dove andava la Fersa? Perché mai, tanto insofferente di vivere in Sicilia, s’era rifiutato a partire pel continente, se non perché voleva restare vicino a colei? E aveva finto di non sapersi decidere, per aspettare che si decidesse quell’altra; ed aveva mendicato pretesti, e accusato il suocero, e così bene temporeggiato che allo scoppio della pestilenza aveva fatto a modo suo!… Né in quelle finzioni, in quelle menzogne, ella vedeva più la conferma dei brutti lati del suo carattere; esse non l’accoravano perché egli ne era stato capace: solo il pensiero che le aveva adoperate per amor di quell’altra era il suo cruccio. Che non amasse la figlia, che fosse ingiusto verso il suocero e prepotente, capriccioso, sgraziato, non le faceva nulla: ella non voleva che fosse d’altri! A Firenze, la gelosia di lei non aveva avuto oggetto determinato, o aveva continuamente mutato d’oggetto, poiché egli faceva la corte a quante donne vedeva; ella stessa poi s’era fino ad un certo punto assicurata, giacché, galante a parole con le signore, la mutabilità e l’impazienza dei suoi desideri gli facevano preferire quell’altre, le donne che si pagano… Che vergognoso dolore era stato il suo nel vedersi ridotta al punto di doversene rallegrare! Eppure, ella invidiava ora le sofferenze passate, giudicando intollerabile l’idea di saperlo così pieno d’un’altra da abbandonar la figlia in quei terribili giorni per starle vicino! Poi il suo cruccio cresceva, misurando la rapidità con la quale egli progrediva nella via del tradimento. A Firenze aveva messo un certo pudore nelle sue tresche; s’era quasi studiato, a momenti, di farsele perdonare, tornando ad ora ad ora buono con lei; adesso sfrenavasi fino a costringerla d’essere spettatrice dell’infamia. Questo, soprattutto, la feriva: che potessero essere così tristi da darsi un simile convegno, sotto gli occhi di lei, mentre i cuori umani tremavano al pensiero della morte!… Che giorno, quello della fuga al Belvedere, per le vie arroventate dal sole, in mezzo a nugoli di polvere calda e soffocante! Ella era nella stessa carrozza con Chiara, Lucrezia e il marchese, e la vista delle cure che questi prodigava alla moglie faceva più acuto il suo dolore. Raimondo non s’era voluto metter con lei, l’aveva lasciata sola in quella corsa pei villaggi dove gente armata fermava ogni persona ed ogni veicolo, contrastando il passo; ma comprendeva ella nulla di tutto questo? Vedeva nulla sul suo cammino? Ella vedeva, con gli occhi della mente, Raimondo sorridente e felice a fianco di quella donna, come l’aveva visto in realtà tante volte senza che la sua nativa fiducia la insospettisse! Ora però tutte le cose che non aveva saputo spiegare acquistavano un senso evidente: le lunghe uscite di Raimondo, le sue attese impazienti, il piacere che gli si leggeva negli occhi appena entrava colei, lo stesso misterioso istinto di repulsione che quella donna le aveva ispirato fin dal primo momento… Come doveva esser falsa e malvagia, se le dava il tenero nome d’amica e l’abbracciava e la baciava mentre le portava via il marito? Egli stesso non era falso altrettanto? Quante menzogne! Aveva anch’addotto la gravidanza di lei per non lasciar la Sicilia, e non s’accorgeva d’attentare in quel modo alla vita della creatura che ella portava in grembo!… Che giorno terribile! Nella carrozza scottante come un forno, al cui sportello s’affacciavano visi sospettosi di contadini brutali, piena del nauseante odore della canfora che Chiara e Lucrezia tenevavano alle narici contro la mefite, ella sentiva mancarsi il respiro. Non sapeva dov’era, dove andava; voleva gridare al cocchiere, alle compagne di viaggio: «Tornate indietro!… Non voglio venire!»; affrontar suo marito, buttargli in faccia il tradimento, scongiurarlo di non condurla vicino a quella donna, di non farla morire, di salvare la creatura che s’agitava nelle sue viscere, di ridar la pace al suo cuore, l’aria al suo petto. Aveva perduto i sensi, infatti, prima d’arrivare al Belvedere, non rammentava più come e quando fosse entrata alla villa…
Lì era cominciata per lei una vita di trepidazione continua. Ad ogni istante aveva creduto di vedersi comparire dinanzi la Fersa: tutte le volte che Raimondo era andato fuori, aveva pensato: «Adesso è con lei…» e il non vederla, il non udirne parlare, accresceva il suo spavento, lo rendeva più oscuro, le procurava non sapeva ella stessa quali orribili sospetti di cospirazioni ordite da tutti a suo danno. Aveva trovato, sì, la forza incredibile di nascondere i suoi sentimenti per non insospettire il marito, per non dare buon giuoco ai nemici; ma il silenzio imposto a se stessa, rendendo più acuto il suo tormento, le aveva tolto il mezzo di saper nulla. Perché nessuno nominava quella donna? Perché non veniva alla villa, con tutti gli altri visitatori del principe? Dov’era andata a star di casa?… E intenta a vagliare le mille supposizioni paurose che l’inquieta fantasia le suggeriva, ella dimenticava il colera,