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che sono sul ponte. Sono mezzi morti di paura.

      I due lupi di mare risalirono sul ponte. I marinai ed i passeggeri, coi visi sconvolti dal terrore, si precipitarono loro incontro interrogandoli con viva ansietà.

      – Siamo perduti? – chiedevano gli uni.

      – Andiamo a picco? – chiedevano gli altri.

      – C’è speranza di salvarsi?

      – Dove siamo?

      – Calma, ragazzi – disse il capitano. – Non corriamo per ora pericolo alcuno.

      L’indiano Kammamuri, che aveva mostrato di aver tanta fretta d’arrivare a Sarawak, si avvicinò al comandante.

      – Capitano – chiese con voce tranquilla, – andremo a Sarawak?

      Vedi bene che non è possibile, Kammamuri.

      – Ma io devo andarci.

      – Non so cosa dirti. Il vascello è immobile come uno scoglio.

      – Ho il padrone laggiù, capitano.

      – Aspetterà.

      Lo sguardo vivo e scintillante dell’indiano si fece cupo e la sua faccia, che aveva un non so che di feroce, divenne tetra.

      – Kalì li protegge – mormorò.

      – Tutto non è ancora perduto, Kammamuri – disse il capitano.

      – Non affonderemo dunque?

      – Ho detto di no. Orsù, calma, ragazzi. Domani sapremo su quale isola o scogliera abbiamo naufragato e vedremo che cosa si potrà fare. Io garantisco le vostre vite.

      Le parole del capitano fecero buon effetto sugli animi dei marinai, i quali cominciarono a sperare di potersi salvare. Coloro che lavoravano alle zattere abbandonarono il lavoro; quelli inerpicati sugli alberi dopo un po’ d’esitazione si lasciarono scivolare giù. La calma non tardò a regnare sul ponte del vascello naufragato.

      Del resto la burrasca, dopo d’aver raggiunta la massima intensità, cominciava a scemare. I nuvoloni, qua e là squarciati, lasciavano intravvedere di quando in quando il tremulo luccichìo degli astri. Il vento, dopo d’aver fischiato, urlato, ruggito, si calmava a poco a poco.

      Tuttavia il mare continuava a mantenersi assai agitato. Gigantesche ondate correvano in tutte le direzioni investendo con furia estrema le scogliere e sfasciandovisi sopra con spaventevole fracasso. Il vascello scosso, sbattuto a prua e a poppa, gemeva come un moribondo, lasciandosi portar via pezzi di murate e frammenti della chiglia infranta. Talvolta, anzi, oscillava da prua a poppa così fortemente, da temere che venisse strappato dal banco madreporico e travolto in mezzo ai marosi. Per fortuna stette saldo, ed i marinai, malgrado l’imminente pericolo e le ondate che si rovesciavano in coperta, poterono gustare anche qualche ora di sonno.

      Alle quattro del mattino, verso oriente, il cielo cominciò a schiarirsi. Il sole sorgeva con la rapidità che è propria delle regioni tropicali, annunciato da una tinta rossa magnifica. Il capitano, ritto sulla coffa dell’albero di maestra, con mastro Bill vicino, teneva gli occhi fissi al nord, dove sorgeva, a meno di due miglia, una massa oscura, che doveva essere una terra.

      – Ebbene, capitano – chiese il nostromo che masticava rabbiosamente un pezzo di tabacco, – la conoscete quella terra?

      – Credo di sì. Fa scuro ancora, ma le scogliere che la cingono da tutte le parti mi fanno sospettare che quell’isola sia Mompracem.

      – By God! – mormorò l’americano facendo una smorfia. – Ci siamo rotte le gambe in un brutto luogo.

      – Lo temo purtroppo, Bill. L’isola non gode buon nome.

      – Dite che è un nido di pirati. È tornata la Tigre della Malesia, capitano.

      – Che? – esclamò Mac Clintock, mentre si sentiva correre per le ossa un brivido. – La Tigre della Malesia tornata a Mompracem?

      – Sì.

      – È impossibile, Bill! Sono parecchi anni che quel terribile individuo è scomparso.

      – Ma vi dico che è tornato. Quattro mesi or sono egli assalì l’Arghilah di Calcutta, il quale non gli sfuggì che con gran fatica. Un marinaio che aveva conosciuto il sanguinario pirata mi narrò di averlo scorto a prua di un praho.

      – Allora siamo perduti. Non tarderà ad assalirci.

      – By God! – urlò il mastro, divenendo di colpo pallidissimo.

      – Che cos’hai?

      – Guardate capitano! Guardate laggiù!…

      – Dei prahos, dei prahos! – gridò una voce dal ponte.

      Il capitano, non meno pallido del mastro, guardò verso l’isola e scorse quattro legni che doppiavano un capo, lontano appena tre miglia.

      Erano quattro grandi prahos malesi, bassi di scafo, leggerissimi, snelli, con vele di forme allungate sostenute da alberi triangolari.

      Questi legni, che filano con una sorprendente rapidità e che, grazie al bilanciere che hanno sottovento e al sostegno che portano sopravento, sfidano i più tremendi uragani, sono generalmente usati dai pirati malesi, i quali non temono di assalire con essi i più grossi vascelli che s’avventurano nei mari della Malesia.

      Il capitano non lo ignorava, sicché appena li ebbe scorti, s’affrettò a discendere sul ponte. In poche parole informò l’equipaggio del pericolo che li minacciava. Solo un’accanita resistenza poteva salvarli.

      L’armeria di bordo, per disgrazia, non era troppo ben fornita. I cannoni mancavano totalmente, i fucili erano appena sufficienti per armare l’equipaggio e in gran parte assai malandati. V’erano però delle sciabole d’arrembaggio, arrugginite sì, ma ancora in buono stato, qualche pistolone, qualche rivoltella e un buon numero di scuri.

      I marinai e i passeggeri, armatisi alla meglio, si precipitarono verso poppa, la quale trovandosi immersa, poteva offrire una buona scalata. La bandiera degli Stati Uniti salì maestosamente sul picco della randa e mastro Bill la inchiodò.

      Era tempo. I quattro prahos malesi che filavano come uccelli non erano più che a sette od ottocento passi e si preparavano ad assalire vigorosamente il povero tre-alberi.

      Il sole si alzava allora sull’orizzonte e permetteva di vedere chiaramente coloro che li montavano.

      Erano ottanta o novanta uomini, semi-nudi, armati di stupende carabine incrostate di madreperla e di laminette d’argento, di grandi parangs di acciaio finissimo, di scimitarre, di kriss serpeggianti con la punta senza dubbio avvelenata nel succo d’upas, e di clave smisurate, dette kampilang, che essi maneggiavano come fossero semplici bastoncini.

      Alcuni erano malesi dalla tinta olivastra, membruti e di lineamenti feroci; altri erano bellissimi dayaki di alta statura, con le gambe e le braccia coperte di anelli di rame. C’erano pure alcuni cinesi, riconoscibili per i loro crani pelati e lucenti come avorio, alcuni bughisi, macassaresi e giavanesi. Tutti quegli uomini tenevano gli occhi fissi sul vascello e agitavano furiosamente le armi, emettendo urla feroci che facevano fremere. Pareva che volessero spaventare i naufraghi prima di venire alle mani.

      A quattrocento passi di distanza un colpo di cannone rimbombò sul primo praho. La palla, di calibro considerevole, andò a fracassare l’albero di bompresso, il quale si piegò, tuffando la punta in mare.

      – Animo, ragazzi! – urlò il capitano Mac Clintock. – Se il cannone parla, è segno che la danza è cominciata. Fuoco di bordata!

      Alcuni colpi di fucile seguirono il comando. Urla atroci scoppiarono a bordo dei prahos, segno che non tutto il piombo era andato perduto.

      – Così va bene, ragazzi! – urlò mastro Bill.

      – Quei brutti musi là non avranno tanto coraggio da spingersi fino a noi. Ohé! Fuoco!

      La sua voce fu coperta da una serie di formidabili detonazioni che venivano dal largo. Erano i pirati che cominciavano l’attacco.

      I quattro prahos parevano