I minatori dell' Alaska. Emilio Salgari. Читать онлайн. Newlib. NEWLIB.NET

Автор: Emilio Salgari
Издательство: Public Domain
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Жанр произведения: Зарубежная классика
Год издания: 0
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con noi?

      – E perchè no? Ormai il bestiame è perduto e se tornassi a Edmonton dovrei subire dei rabbuffi da parte del signor Harris il quale malgrado i suoi milioni e le sue mandrie sterminate tiene molto ai suoi buoi e a suoi cavalli.

      – Credo che nulla avrete da perdere nel cambio, anzi tutto da guadagnare. Si tratta di raccogliere oro a palate.

      – Corna di bisonte!… Ecco una parola che fa drizzare gli orecchi, specialmente a un vecchio minatore. Siete certo di questo?

      – Sentirete mio zio, signor Bennie.

      – Mi mettete in grande curiosità!… Eh!… Dorso Nero allunga un pò il trotto, mio caro. Mi preme vedere il signor Falcone!

      Il cavallo che montava, come se lo avesse compreso accelerò la corsa seguito da quello di Armando e dagli altri due del carro, galoppando al margine della pineta. Quella seconda corsa durò una buona mezzora senza che gli impareggiabili mustani rallentassero un solo istante, sebbene galoppassero da dieci ore con poche soste; ad un tratto Bennie che era diventato silenzioso concentrando la sua attenzione a scrutare il bosco, esclamò improvvisamente:

      – Là! Guardate Armando.

      – Dove? – chiese il giovanotto.

      – Dinanzi a noi, presso la riva del lago non vedete quell’isolotto distante soli pochi passi dai canneti?…

      – Dove cresce quell’enorme pino?…

      – Precisamente Armando, dentro quel colosso si nascondono Back e vostro zio.

      – Speriamo di trovarli.

      – Non ne dubito, Forza, Dorso Nero se vuoi riposare su un buon letto di fresche graminacee e di buffalo-grass.

      I due cavalieri ripresero la corsa tenendo però in mano i fucili, non fidandosi completamente della tranquillità che regnava sulle rive del lago. Qualche animale cominciava ad apparire sui margini della foresta e fuggiva frettolosamente all’avvicinarsi dei cavalli. In prevalenza erano coyote, ma talvolta si vedeva anche qualche grosso lupo grigio, bestie pericolose, se sono in gruppo, e che osano scagliarsi anche contro gli uomini armati. Il pino gigante intanto ingrandiva a vista d’occhio. Era una di quelle punte enormi chiamate dagli americani sequoja e dai naturalisti pinnus albertina, che s’incontrano di frequente nelle parti occidentali dell’America del Nord, specialmente sulle falde della Sierra Nevada, della Nuova California, su quelle della Catena delle Cascate e delle Montagne Rocciose.

      Questi colossi se non possono gareggiare coi famosi eucaliptus amygdalina del continente australiano, i quali raggiungono talvolta altezze incredibili, perfino cento e ventisei metri, li superano per circonferenza, la quale può talvolta superare quella dei più famosi baobab dell’Africa. Alla loro base sono così immensi che quaranta uomini non potrebbero abbracciarli. Il pino entro cui dovevano aver trovato rifugio il messicano e lo scotennato non era dei più grandi, pure lanciava la sua cima ad ottanta o novanta metri dal suolo e aveva alla base una tale circonferenza da poter riparare comodamente dodici uomini e altrettanti cavalli. Sorgeva su un isolotto lontano dieci o dodici metri dalla riva, occupandolo quasi tutto con la sua mole straordinaria. Bennie, giunto a circa duecento passi dalla riva, scorse due cavalli che pascolavano liberamente al margine del bosco, e subito li riconobbe.

      – Sono quelli che montavano i nostri compagni – disse – Buon segno!

      Aveva appena pronunciate quelle parole quando vide apparire sull’isolotto il messicano il quale gridò con voce allegra:

      – Ben felice di rivedervi!… Erano quattro ore che mi struggevo per l’ansietà. E gli indiani?

      – Tutti rimasti indietro.

      – E Coda Screziata?

      – Ucciso, almeno lo spero. È arrivato nessuno di quegli idrofobi su queste rive?

      – E mio zio? – gridò Armando.

      – Riposa tranquillamente su un bel fascio d’erbe fresche. Lasciate i cavalli e venite a riposarvi.

      Bennie e Armando scesero di sella, liberarono gli animali dalle bardature, presero i fucili e le rivoltelle, e si affrettarono ad attraversare quel piccolo canale, dove 1’acqua era così bassa da non toccare il mezzo metro. Il messicano diede a entrambi una vigorosa stretta di mano, poi li fece girare intorno al colossale albero, arrestandosi dinanzi ad una apertura larga appena due piedi, ma molto alta prodotta dall’opera lenta, ma continua del tarlo.

      – Accomodatevi nella mia casa.

      – La conosco – rispose Bennie, ridendo.

      Strisciò attraverso l’apertura e si trovò in una specie di caverna scavata dentro il gigante, e tanto vasta, da poter contenere quindici persone. Il tarlo aveva danneggiato l’interno del pino e il legno, roso, sminuzzato da chissà quanti secoli, era stato ridotto in polvere, che si era accumulata alla base.

      In un angolo, comodamente sdraiato su un bel fascio d’erbe fresche che rendevano più soffice la polvere legnosa, Bennie scorse lo scotennato il quale si sollevò, tendendogli la mano:

      – Sono ben contento di rivedervi ancora vivo – disse.

      – E io di avervi ancora una volta salvato, signor Falcone – rispose il cow-boy.

      – E Armando?…

      – Eccomi, zio!… – gridò il giovanotto, balzando nell’interno e correndogli vicino.

      – Signore – disse Bennie, rivolgendosi allo scotennato che sorrideva al nipote – potete essere orgoglioso di questo bravo giovanotto, ve lo dice un vecchio scorridore di prateria. Corna di bisonte!.... Con un compagno simile andrei anche più lontano dell’Alaska, ve lo assicuro.

      – Oh!… non esagerate, signor Bennie, – rispose Armando.

      – State zitto, corna di montone!… I cow-boys non esagerano nè mentono.

      – Lo so che mio nipote è coraggioso, – rispose lo scotennato, gettando uno sguardo d’orgoglio su Armando. – E gli indiani, si sono ritirati?…

      – Ritengo che Nube Rossa si sia ormai rassegnato a lasciarci in pace. D’altronde lui, che temeva la fame, ha fatto una bella razzia che lo consolerà del dispiacere di non aver potuto scotennarci. Diavolo!… Duecento capi di bestiame valgono bene cento bisonti.

      – Quale rovina per voi, e tutto per salvarci.

      – Non abbiamo perduto nulla, signore, e come dicevo poco fa a vostro nipote, il proprietario è tanto ricco da non accorarsi troppo per tale perdita.

      – Mi dispiace però, per la cassa.

      – Ancora!… – esclamò Bennie. – Vi è proprio necessaria per andare nell’Alaska?…

      – Sì.

      – Allora torneremo a prenderla. Suppongo che gli indiani non l’avranno mangiata.

      – Nel nostro e nel vostro interesse, quella cassa ci sarà di immensa utilità nell’Alaska, se vorremo raccogliere molto oro e molto presto.

      – Dell’oro!… Intendi, Back, il signore promette molto oro. Cosa hanno scoperto dunque nell’Alaska?…

      – Delle miniere favolose – rispose lo scotennato.

      – Ma aspettate!… Mi pare di aver udito parlare ad Edmonton di miniere che sarebbero state scoperte nel vecchio possedimento dell’Impero Russo, però nessuno voleva prestarvi fede, ritenendo tali notizie inventate per attirare coloni su quelle terre.

      – È vero, – disse Back.

      – No, amici, – disse lo scotennato. – Quelle notizie erano vere e io ne ho avuta la conferma da un irlandese che ho avuto la fortuna di salvare da morte certa. Quell’uomo ritornava dall’Alaska, dopo quattro mesi di viaggio, portando con sè centosessanta chilogrammi di oro puro e mi diceva ch’egli era stato il meno fortunato di tutti quelli che avevano lavorato in quei placers.

      – Corna