– Il mio padrone prega di accettare questo in attesa di visitare gli ospiti – disse.
Rokoff levò la coperta di seta che copriva il paniere, levando successivamente dei barattoli che dovevano contenere degli unguenti preziosi, delle statuette d’avorio, delle pezze di seta, poi dei recipienti d’argento di varie forme e finalmente una superba anfora d’oro, finemente cesellata ed incrostata di pietre preziose.
– Fedoro! – esclamò. – Un regalo da sovrano. È meravigliosa! Vale una fortuna!
– Che non è destinata alle nostre tasche, Rokoff. – disse Fedoro.
– Se ce la mandano in regalo!
– Ma essendo l’oggetto più prezioso, non possiamo accettarlo.
Il cosacco lo guardò con uno stupore facile a comprendersi.
– Lo dici per scherzo? – chiese.
– Sing-Sing si degna di trattarci da amici e come tali non dobbiamo abusare della sua generosità. Che cosa vuoi, mio buon Rokoff? Siamo in Cina e dobbiamo uniformarci agli usi del paese.
– Che generosità pelosa! – gridò il cosacco sdegnosamente.
– Da negoziante e soprattutto cinese. Metti l’anfora da una parte.
– Un così bell’oggetto regalato! Se l’avessi io, mi comprerei cento cavalli, ma che dico? Parecchie centinaia. Ah! E non si mangia qui?
– Aspettiamo prima la visita di Sing-Sing. Non si farà aspettare.
Fedoro aveva pronunciato quelle parole, quando il maggiordomo entrò per la terza volta, annunciando il padrone.
Un momento dopo Sing-Sing, il più ricco negoziante di tè della capitale dell’impero, entrava nella stanza.
UN BANCHETTO CINESE
Sing-Sing era il vero tipo del cinese, tipo che è così differente dal manciuro che appartiene alla razza dominante.
Era un uomo piuttosto tozzo, molto obeso, prerogativa dei ricchi cinesi molto invidiata dal popolo, colla faccia piatta e larga, cogli zigomi molto pronunciati, il mento corto e tondo, il naso un po’ depresso senza essere schiacciato, gli occhi un po’ obliqui, colla sclerotica giallastra e molto sporgenti.
Due lunghi baffi, che cadevano inerti presso gli angoli della bocca assai larga, ruvidi e grossi, gli davano un aspetto strano e contrastavano vivamente col loro colore oscuro e colla tinta bruno-giallastra della pelle.
Al pari dei ricchi borghesi, indossava una larga casacca di seta fiorata, la kao-ka-tz, che scende fino alle ginocchia, aperta sul lato destro del petto e assicurata da una cintura dalla quale pendeva una borsa; calzoni pure larghi e corti, calze di seta e scarpe quadre con alta suola di feltro bianco.
Sul capo invece portava un cappello conico, adorno di una striscia di zibellino e d’un piccolo fiocco rosso.
Dopo aver inforcato un paio d’occhiali di quarzo, di dimensioni straordinarie, il cinese si avanzò verso Fedoro stendendogli la mano all’europea, senza però stringergliela.
– Vi aspettavo – gli disse – e sono ben lieto di rivedervi dopo una così lunga assenza e di avervi questa sera presso di me. Si dice che i miei compatrioti hanno paura degli uomini bianchi e la vostra venuta può forse salvarmi la vita.
– Che cosa dite, Sing-Sing? – chiese Fedoro stupito da quel linguaggio incomprensibile.
– La verità – rispose il cinese, mentre un’ombra passava sulla sua fronte.
– Chi può minacciare voi, che tutta Pechino e le città costiere conoscono e stimano?
– Chi?
Sing-Sing si era arrestato girando all’intorno uno sguardo atterrito.
– Il luogo non può essere sicuro per delle confidenze, signor Siknikoff – disse poi, mentre si tergeva con una mano alcune stille di freddo sudore. – oggi è giorno di festa e la cena ci aspetta; a più tardi maggiori spiegazioni. Ditemi, però: avreste paura di dormire nella mia stanza?
– Io! – esclamò il russo.
Poi, indicando il cosacco:
– Ecco un uomo che è capace di accoppare un toro con un pugno e che se ne ride dei pericoli. Un amico devoto, affezionato, con muscoli di acciaio e che ha fatto delle belle campagne in Turchia. Ditemi quale pericolo vi minaccia.
– Gli amici che ho invitato per questa sera ci aspettano; l’etichetta m’impedisce di lasciarli soli, signor Siknikoff; andiamo quindi a cenare. Chissà, può essere l’ultimo banchetto per Sing-Sing. D’altronde, da parecchi anni la mia bara sta sotto il mio letto e se devo morire, tutto sarà pronto.
– Voi mi spaventate! Chi può minacciare la vostra vita? Chi sono questi nemici?
– Degli uomini potenti, capaci di far tremare anche l’imperatore. Basta, riparleremo di ciò più tardi – disse Sing-Sing. – Ci aspettano ed ho già annunciato ai miei amici la vostra visita.
Fedoro ed il cosacco, quantunque assai preoccupati da quell’inattesa confidenza, seguirono subito il ricco negoziante di tè, attraversando lunghi corridoi sulle cui finestre brillavano miriadi di lanterne di carta oliata e di talco.
Sing-Sing aprì una porta e introdusse il russo e il cosacco in una vasta sala, illuminata da quattro gigantesche lanterne con vetri di madreperla trasparente, occupata per la maggior parte da una tavola la quale si piegava sotto il peso di splendide porcellane.
Due dozzine di cinesi, persone distintissime di certo, a giudicare dalla ricchezza delle loro vesti, stavano seduti all’intorno, sorseggiando del vino bianco caldo in piccole tazze di porcellana azzurra filettate d’oro. Vi erano dei mandarini di secondo e di terzo grado, riconoscibili pei loro cappelli conici adorni d’un bottone di corallo o di zaffiro con penne di pavone; dei letterati panciuti, dei comandanti militari che portavano sul petto l’insegna d’una tigre; dei ricchi che avevano le unghie lunghe parecchi pollici per dimostrare che non avevano bisogno di lavorare.
Sing-Sing presentò ai suoi amici il russo ed il cosacco, poi se li fece sedere accanto, Fedoro a sinistra, posto d’onore, e Rokoff a destra.
Quasi subito i battenti d’una porta s’aprirono e una folla di servi entrò silenziosamente, portando immense zuppiere, piatti giganteschi, recipienti di ogni specie e salsiere di tutte le forme, deponendole sulla tavola, dinanzi ai convitati.
In Europa non si può avere una idea della ricchezza e della grandiosità dei banchetti cinesi, i quali devono certo superare perfino quelli di Lucullo. Quantunque non siano i cinesi forti mangiatori, in questi pranzi offerti nelle grandi occasioni, spendono somme enormi, perché le portate non devono essere mai meno di trenta ed ognuna composta di tre piatti diversi!… Ordinariamente uno è caldo, gli altri due sono freddi, ma questi non servono altro che per accordare ai convitati un po’ di riposo, non venendo quasi mai toccati. Il cinese non ama che i cibi appena levati dal fuoco e vi fa anche molto onore.
Le pietanze più strane, le più inverosimili e anche le più ributtanti, che un europeo non oserebbe nemmeno guardare senza provare un vero senso di nausea, si succedono.
Il riso è il primo piatto, che viene presto finito dai commensali, aiutandosi con dei bastoncini d’avorio lunghi venti centimetri, grossi quanto un aculeo d’istrice e che chiamansi Kwai-tsz, ossia «agili ragazzi».
La seconda portata invece incomincia con una zuppa di pollo, con aggiunta di molto pepe, molto sale e aceto, poi si seguono vermi di terra in salamoia, cavallette fritte nel burro, ranocchi, prosciutti di carne, maccheroni, uova sode salate e stantie, mantenute un anno nella calce, deliziose pei palati cinesi.
Poi pallottole di trifoglio, gamberi pestati, pinne di pescecane, piccoli pasticci di carne, lingue d’anitra in salsa bianca con aglio, zuccherini fritti in un olio puzzolente, oloturie in stufato, radici di zenzero, gemme di bambù sciroppate, e non mancano nemmeno i topi fritti, uno dei piatti più apprezzati dai