Sembrano uniti; ma le loro maglie sono indipendenti l’una dall’altra, e con pochi colpi di coltello possono separarli. Se uno si guastasse, potrei facilmente lasciarlo cadere in mare senza lunghe manovre e farmi reggere dall’altro, gettando la mia provvista di zavorra e gli oggetti meno necessari. Entrambi sono muniti di due valvole: una situata in alto, detta di manovra, serve per la discesa; e per ottenere ciò, basta dare uno strappo a questo due corde fissate a poppa della navicella; l’altra, detta di sicurezza, è automatica, e serve a dar sfogo all’idrogeno quando si dilata per il troppo calore del sole. Senza di questa si potrebbe correre il pericolo di veder scoppiare i nostri palloni.
Quando raggiungeremo dei climi più caldi, vi toccherà sovente di sentire un acuto odore di gas. Sarà una perdita grave, ma necessaria per la nostra salvezza. Ma nei miei due palloni ho voluto introdurre un grande miglioramento, che è stato già studiato e anche adoperato, credo, da taluni aeronauti europei, e con risultati soddisfacenti, io ho avuto la massima cura nella scelta del tessuto di seta dei miei palloni e nella vernice interna ed esterna che doveva spalmarli; ma, come voi sapete, il gas fugge sempre anche attraverso i tessuti più impermeabili, e dopo un certo tempo l’aerostato perde la sua forza ascensionale, ricade e forma delle grandi pieghe, entro le quali s’ingolfa il vento, producendo talvolta delle lacerazioni. Io spero che col tessuto da me fatto appositamente fabbricare e verniciare, la perdita dell’idrogeno sarà minima, tanto più che i miei palloni, invece di essere semplici, hanno doppia coperta. Tuttavia fra otto o dieci giorni si sarebbero manifestate delle pieghe che sarebbero diventate assai pericolose, data la forma speciale del mio vascello aereo. Per ovviare a questo grave inconveniente e mantenere la superficie dei miei aerostati sempre tesa, ho posto in mezzo ad essi due piccoli palloni gonfi d’aria, introdotta con la pompa premente che avete veduto. Quando i due fusi perdono l’idrogeno, io gonfio sempre più i miei due piccoli palloncini i quali, aumentando il loro volume, costringeranno la superficie dei primi a rimanere sempre tesa.”
“Benissimo, Mister Kelly; ma quando i due palloncini saranno completamente gonfi, come farete ad aumentare il loro volume? Allora non potrete più evitare le pieghe che si manifesteranno nei due grandi aerostati.”
“Non ho portato con me i dieci cilindri di idrogeno compresso? Voi vedete che tutti e quattro i palloni, all’estremità inferiore, o, meglio, nel loro punto centrale, hanno quattro tubi che si prolungano fino a noi. Adatto i cilindri alle maniche dei due fusi e v’inietto dentro i miei 400 metri cubi di gas.”
“Per San Patrick, mio protettore! Voi avete pensato ad ogni cosa!” esclamò l’irlandese.
“Lo spero, O’Donnell; ma questo non è tutto. Se i due grandi aerostati perdessero poco idrogeno e il gonfiamento ad aria dei palloncini fosse sufficiente a mantenerli tesi, io potrei accrescere la forza ascensionale del mio vascello aereo, iniettando i miei 400 metri cubi di idrogeno nei secondi”
“Eliminando l’aria?”
“Sì. All’una sostituisco l’altro”
“E se tutto ciò non bastasse e il nostro vascello dopo un certo numero di giorni cadesse? Chissà, i venti possono spingerci lontano, sull’ampio oceano.”
“Ho pensato anche a questo, O’Donnell. Ho preso con me tre lunghe guide-ropes o meglio, tre funi moderatrici, del peso complessivo di 70 chili e d’ineguale lunghezza. Se il mio vascello si abbassa (e ciò avverrà senza dubbio tutte le notti, poiché con lo scemare del calore l’idrogeno si restringe, diminuendo considerevolmente la forza ascensionale), io lascio pendere le mie tre funi. Immergendosi, esse perdono una parte del loro peso specifico e alleggeriscono i palloni d’un peso non piccolo. Non bastano? Senza sacrificare la zavorra, calo i miei barili d’acqua, che sono chiusi ermeticamente nei loro recipienti di alluminio, e mi scarico due o trecento chilogrammi. Un’ora di sole basta a dilatare l’idrogeno e noi, a giorno fatto, risaliamo in alto, portando con noi i nostri barili e le nostre guide-ropes, sacrificando forse poche decine di chilogrammi di zavorra.”
“E se ancora ciò non bastasse e i nostri palloni scendessero per mancanza d’idrogeno?”
“Mi resta la scialuppa. Da aeronauti diverremo marinai e cercheremo di raggiungere la costa più vicina, o di incontrare qualche nave.”
“Ma voi avete eliminato tutti i pericoli.”
“Tutti no, O’Donnell. Un uragano può lacerarci i palloni, o un fulmine incendiarli, e noi precipitare in fondo all’oceano.”
“Speriamo di scendere sani e salvi in Europa, Mister Kelly.”
“Confidiamo in Dio e nel nostro Washington. Simone, versaci un bicchiere di whisky. Quassù fa freddo assai, e una sorsata di liquore ci farà bene e forse ci eviterà un raffreddore.”
Il negro non si mosse: sempre rannicchiato a poppa della scialuppa, con gli occhi strabuzzati, la pelle bigia, le mani convulsivamente strette attorno alle funi, pareva inebetito dallo spavento. Cercò di rispondere alla domanda del padrone; ma il solo rumore che gli uscì dalle labbra contratte fu uno stridìo di denti.
“Orsù, poltrone,” disse l’ingegnere. “Hai paura di precipitare nell’oceano? Bel compagno che ho scelto.”
“Ho… ho… paura massa (padrone)..” balbettò il negro con voce rotta.
L’irlandese proruppe in una fragorosa risata. “Siete comico, mastro Simone,” disse. “Non sareste stato voi di certo a tenere allegra compagnia al vostro padrone. Con vostro permesso, Mister Kelly, metto le zampe io sulla vostra cantina.”
L’irlandese che conservava il suo inalterabile buon umore, stappò una bottiglia e riempì tre bicchieri. “Hurrah per il Washington” gridò. Stava per accostare il bicchiere alle labbra, dopo aver toccato quello dell’ingegnere, quando un’acuta detonazione risuonò sotto l’aerostato. “Per San Patrick!” urlò, “cosa scoppia?”
“Una granata,” rispose Kelly, con voce tranquilla.
“Pare che agli inglesi prema assai di catturarvi. Bah! sarà polvere sprecata!”
Capitolo 4. La caccia al Washington
In quel momento l’aerostato si librava quasi sopra San Paolo, piccola isola che è situata fra quella Brettone e Terranova, mantenendosi a un’altezza di 3500 metri.
Il vento, che era lentamente scemato, lo trascinava verso il nord-est con una velocità di ventidue miglia all’ora, tendendo a spingerlo verso la grande isola dei merluzzi, che si delineava distintamente con le sue numerose baie, i suoi laghi, le sue colline e i suoi boschi.
All’ovest si vedeva l’isola d’Anticosti, la cui forma allungata si stendeva a mò di immenso cetaceo; più vicino appariva il gruppo delle isole Maddalene, che occupano quasi il centro del grande golfo di san Lorenzo; al sud-ovest l’isola frastagliata del Principe Edoardo e al sud quella del Capo Brettone, che sembrava un gancio, e al nord le due isolette francesi di Miquelon e di S. Pierre, situate dinanzi alla profonda baia di Placentia, che s’ingolfa entro Terranova. Fra queste due isole e quella di San Paolo, i due aeronauti scorsero un legno a vapore, che sembrava grande come una scialuppa e che pareva venisse dalla baia sopraccennata. Un nuvolone di fumo biancastro si alzava ancora a prua, disperdendosi lentamente.
“Ecco chi ci bombarda,” disse l’ingegnere.
“Quella nave?”
“Sì.”
“Che sia quella uscita da Sidney?”
“Oibò! Sarà ancora lontana quella: forse è quel punto nero perduto in mezzo al golfo.”
“Ma chi può aver avvertito quel legno che ci prende a colpi di cannone?”
“Il telegrafo, amico mio. Avranno annunciato da Sidney la vostra fuga in pallone alle autorità di San Giovanni o di Harbour-Grace, e queste hanno lanciato qualche incrociatore o qualche stazionario del grande banco di merluzzi contro di