Ancora, dunque, egli non conosceva affatto la signorina Maria. Ma sapeva bene che la geologia del Santo Fiore si perdeva nella notte dei secoli, e che la giovinetta, ultimo rampollo dell’albero vetusto, aveva ereditato dalla madre inglese l’indole, il sangue, la bionda e pallida bellezza… e centomila lire di rendita.
Presto egli fece la domanda, e la risposta, favorevole, fu data ancora più presto. I parenti della fanciulla, orfana da vario tempo, diedero una festa di famiglia, dove la high-life di Borghignano fece pompa di tutto il suo splendore e dove Prospero Anatolio incontrò Maria per la prima volta.
Maria, bella a trentacinque anni, allora che ne aveva sedici era una meraviglia. Nude le spalle, nude le braccia, nudo il seno, fra le rose del suo abito bianco, tutta quella nudità, alla quale era costretta per la prima volta, le tingeva coll’amabile rossore della verecondia le carni alabastrine. Il cuore le batteva forte forte, e la commozione delle gioie promesse e fantastiche, le angosce dell’ignoto, i segreti turbamenti dell’innocenza, la rendeano più bella e più attraente.
Prospero Anatolio fu sedotto, affascinato, e: – Vi a-a-aspetta nella mia casa il po-posto venerato di mia madre – balbettò alla fanciulla.
Maria levò sopra di lui il suo sguardo dolce, sereno: e la goffaggine, la confusione del duca, non dissiparono la favorevole prevenzione che ella già sentiva per l’uomo colto e reputato che le stava dinanzi. Invece gli fu grata di quella goffaggine, di quella confusione, che la povera illusa credeva fosse il turbamento dell’amore.
III
Ma non era il turbamento dell’amore. Era il turbamento dei sensi.
A Maria il duca Prospero Anatolio non domandò che due cose: il piacere e un figlio maschio.
Egli non pensò mai a farsene un’amica, la cara compagna e l’inspiratrice del suo lavoro, la consigliera, il conforto nelle ore della sconfitta e dello scoraggiamento.
Nè alla donna, a sua moglie, a questo essere, ch’egli a torto o a ragione giudicava inferiore all’uomo, si degnò mai di stender la mano per inalzarlo; invece si compiacque, autocrate capriccioso, di dominarlo dall’alto della propria superiorità. Carezze, baci, moine, specialmente in principio; ma i tesori della mente e dell’anima di sua moglie nè prima nè dopo conobbe o curò, forse distratto, forse incapace d’intenderli; confidenza insomma gliene concedeva pochina, stima del pari, autorità punta.
In questo mezzo, i fatti d’Aspromonte avevano suscitata più viva, più accanita che mai, la lotta per la questione romana. L’avvenire, secondo il duca d’Eleda, si preparava torbido assai. Con la corrente delle riforme, la Chiesa combattuta, il suo potere discusso, minacciato, scemava per necessaria conseguenza anche l’autorità morale della religione. Egli allora sentiva il popolo, che per lui era sempre la plebe, i contadini, dei quali inconsultamente si voleva far tanti dottori, intonare il ça-ira della repubblica. Questa benedetta paura della repubblica gli faceva perder la testa: abbandonò sua moglie, che incinta non poteva seguirlo, e corse a Torino, per opporsi all’irrompere delle idee nuove. È inutile il dire che tutti i suoi sforzi riuscirono vani. Però l’audacia, l’energia ch’egli seppe dimostrare in questa occasione lo misero, come si dice, sul candelliere, ed egli divenne il leader dell’estrema destra.
In una terra di ciechi, un miope fa certo fortuna; ed il partito clericale, forte, disciplinato, minaccioso fuori della Camera, nell’aula parlamentare era impotente, nè avrebbe trovato nel proprio seno chi per l’influenza del nome e delle ricchezze potesse rappresentarlo meglio di lui. Il duca dunque fu riconosciuto e accettato come capo della fazione, e così, o bene o male, se non una celebrità, divenne una notorietà della Camera. Il Governo lo aveva in considerazione, gli avversari in molte occasioni ne cercavano l’alleanza, i giornali, amici o nemici si occupavano di lui assiduamente, per combatterlo o per difenderlo: in una parola, mentre prima la sua vita parlamentare si perdeva intera nella monotonia di un voto dipendente, ora gli presentava tutte le commozioni della battaglia, con un piccolo esercito da guidare: e attorno al suo nome cresceva quel rumore tanto lusinghiero per le piccole ambizioni, quel rumore che precede la fama.
Durante la prima settimana della sua assenza, Prospero Anatolio fece due corse a Borghignano, ed una ne fece nella seconda; poi gli giunse il telegramma che lo avvertiva del parto imminente. Appena lo ebbe ricevuto lasciò senza indugio Torino; ma, prima che egli fosse giunto a Borghignano, la duchessa si era già felicemente sgravata.
Maria aspettava suo marito, come ogni donna in quel momento supremo aspetta il padre della propria creatura. Prospero Anatolio invece entrò in camera con un fare ben poco espansivo e con un’aria soddisfatta ancor meno. Sua moglie gli aveva dato una bambina, mentre sapeva pure ch’egli voleva un maschio ad ogni costo! Due giorni dopo, egli dovè ripartire; e poichè i giornali portarono ai sette cieli l’abnegazione colla quale il duca d’Eleda sapeva anteporre alle gioie ineffabili della famiglia i doveri dell’uomo pubblico, così egli rimase molto tempo senza farsi vedere a Borghignano.
Maria volle allattar lei la creatura, e nell’affetto e nelle cure di madre non si accorse nemmeno della solitudine che la circondava.
Intanto la vita dell’uomo politico alla quale Prospero si era ormai dato interamente, lo teneva, in quei primi anni, quasi sempre lontano dalla famiglia. Solamente nelle vacanze parlamentari egli viveva con sua moglie e colla piccola Lalla; ma poi, finchè restava aperta la Camera, non domandava e non si prendeva congedi; e così ogni giorno crescevano gli insidiatori al talamo trascurato. Ce ne furono di tutte le età e di tutti i metodi: i vecchi coll’astuzia scaltrita, i giovani colla passione, gli uni colla lusinga del mistero, gli altri collo stimolo della vendetta tentarono il cuore di Maria, ma contro la rocca assediata si spuntarono ingloriosamente tutte le arti nemiche.
La virtù di Maria, come tutte le virtù delle donne che resistono, aveva alleati fortissimi. I suoi erano la fierezza di carattere, la nobiltà dei sentimenti e una sagacità molto fine: e fu allora che, con la ripugnanza dell’ermellino, per non aver inzaccherate dal fango neppur le balzane della veste, si ritirò dal mondo, si rinchiuse nella sicura tranquillità della sua casa e, con un pretesto o coll’altro, mise alla porta tutta la buona società di Borghignano.
Si fece una sola eccezione per il conte Giorgio Della Valle, che, quantunque giovanissimo ancora, nutriva da molto tempo per la duchessa Maria un’affezione quasi fraterna. Di ciò, s’intende da sè, la mattina all’ora di colazione, e la sera dopo il teatro, nel gran caffè di Borghignano, si faceva ogni sorta di commenti. Ma anche la maldicenza non faceva a Maria nè caldo nè freddo: aveva quella sua bimba che veniva su vispa come() un demonietto; aveva un marito che, elevandosi dalle mediocrità inconcludenti, sapeva tener alto l’onore della casa; aveva un amico onesto, sincero, affezionato, al quale poteva confidare e gioie e timori, con cui discorrere del suo bel sogno di madre… Che cosa poteva desiderare di più?
IV
Questo prezioso amico si allontanava per altro troppe volte e per troppo tempo dal palazzo d’Eleda.
Giorgio Della Valle non aveva ancora vent’anni quando si arruolò fra i Cacciatori delle Alpi. Fu più tardi uno dei Mille. Ferito a Bezzecca nel sessantasei, poco tempo dopo, rinfrancato, si batteva a Mentana.
Molto giovane ancora, e molto poeta, il suo ideale era l’Italia, e la vagheggiava libera e col berretto frigio.
Giorgio Della Valle era un sognatore; ma bisogna ricordare che a vent’anni il Manzoni, il Giusti, il Settembrini avevano avuto quell’istesso ideale, avevano fatto quell’istesso sogno; invece la gioventù scettica e quattrinaia che dorme… e non sogna, senza essere più svegliata per questo, gridava al conte repubblicano la croce addosso, gli arrabbiati chiamandolo un mestatore ambizioso, e i tolleranti un matto pericoloso. Pazienza ancora se si fosse trovato al verde; dei conti che facciano il democratico tanto per isbarcare il lunario, se ne possono trovare a dozzine, ma democratico, ricco e conte?… per l’aristocrazia gretta e provincialesca di Borghignano era proprio roba da chiodi.
Ma intanto ch’egli perdeva il sangue a Bezzecca e il credito d’uomo serio a Mentana, anche la stella del duca d’Eleda cominciava ad offuscarsi. Prospero, per dire il vero, non era mai stato un uomo