– Dunque… fiasco?… – domandò Prospero Anatolio, quando lo vide entrare con una faccia che non lasciava sperare nulla di buono. Prospero, adesso, sapeva fingere con Giorgio abbastanza bene; ma era rimasto là ad aspettarlo con mille sospetti e mille inquietudini nel cuore. Egli vedeva a mano a mano farsi sempre più grave la propria imprudenza e il rischio sempre maggiore. Cominciava a dubitare della lealtà dell’amico, della fedeltà di sua moglie, e si sentiva meno sicuro: ci fu un momento nel quale aveva pensato d’interrompere quel colloquio troppo pericoloso e forse lo avrebbe anche fatto se Giorgio avesse tardato ancor a ritornare.
– Fiasco… irreparabile.
– Come ti ha ricevuto?
– Mi ha ricevuto trattandomi in un certo modo, con una sostenutezza quasi diffidente, che accresceva la scabrosità dell’argomento.
– Almeno le hai potuto parlare?
– Cioè, ho cominciato; ma lei non mi ha lasciato finire, concludendo in poche parole, che non potevamo intenderci se tu prima non mi dicevi il vero motivo per cui essa vuol partire, e vuol partire subito; e che del resto… non ha nulla da perdonarti!
– Ah! Ah! Va bene; va bene. – E suo malgrado, Prospero Anatolio arrossì fino al bianco degli occhi.
– Dimmi la verità, c’è sotto forse qualche altra cosa che non mi hai raccontato?
– Che!… scuse, pretesti, e niente altro! – Ti ringrazio, intanto, dal profondo del cuore – continuò il duca – per la seccatura che ti sei presa; Sei buon testimonio che io volevo usare la persuasione, l’amorevolezza; ma, vedendo, che con ciò non si riesce, cambierò metodo. A conti fatti, il padrone sono io.
– Non dimenticare peraltro che tu, con tua moglie… sarai sempre dalla parte del torto.
– Chi lo dice?
– Tutti.
– Chi mi ha veduto?
– Nessuno.
– Dunque, calunnie.
Ma nonostante tutte le proteste, le minacce, la collera di Prospero Anatolio, la duchessa Maria, rimasta inflessibile, partì il giorno dopo per Santo Fiore, sola con Lalla e con miss Dill; ed egli, benchè contro genio, questa volta dovette pur riprendere la vita di scapolo.
– No, quella donna non mi ha mai amato, come non ama quell’altro, come non amerà mai nessuno, nemmeno un Santo che volesse dannarsi per lei! Non ha sangue nelle vene, non ha che orgoglio – pensava il duca d’Eleda la prima notte che si trovò solo nell’ampio letto matrimoniale, mentre non era capace di pigliar sonno. Inquieto, perduto in quell’imbroglio di trine e coperte, fu preso da un senso di malinconia; in quel silenzio uggioso la cabaletta di un Ernani ubriaco gli riusciva gradita dapprima, come voce amica che lo confortasse nel suo isolamento, e poi finiva, indispettito, col diventare invidioso di quella volgare e spensierata allegrezza. Allora, rannicchiandosi, si tirava le coltri fin sopra la faccia e là, solo solo sentiva di aver freddo. Ma, così raggomitolato nel talamo deserto, mentre il suo corpo a poco a poco si riscaldava, si riscaldava anche la sua fantasia e volgeva a più miti pensieri verso la moglie; egli stesso era pur costretto a riconoscerlo: in quella donna si era rivelato un carattere singolare. – Quanto orgoglio, quanta dignità, quanta fermezza! – Come tutti lo avrebbero invidiato se una tal donna lo avesse potuto amare… una donna così rara e così piacente!… In quegli ultimi giorni, Il dolore, che ella voleva nascondere, l’aveva fatta ancor più pallida e ancora più bella. I suoi occhi profondi erano circondati da una tinta azzurra, cupa, che tradiva veglie angosciose e lacrime invano celate… Rosse le labbra, i bei capelli in disordine e… e il povero marito che la vedeva, in tutto quello scompiglio della vaga persona, disegnarsi viva nel suo pensiero, sentiva i nervi che martellavano, tormentato da tentazioni affannose.
E dire che quella donna era stata sua, là, in quel medesimo letto, accanto a lui; ma allora insensibile a tanta bellezza, sedotto da allettamenti volgari, egli aveva trascurata tutta quella dovizia di voluttà, di passione, ed oggi, oggi che ne capiva il valore, oggi l’aveva perduta per sempre. Per sempre?!… A questa idea credette di soffocare. Gittò con ansia le coperte dal letto e, puntellandosi coi gomiti, si alzò quasi a sedere: guardò intorno, balbettò senza volerlo il nome di lei, e poi con un movimento repentino del capo, fissò trasognato il letto vicino. Ma lì, dove altra volta egli vedeva le coltri fremer di vita, disegnandosi in leggiadre curve, ora quelle, disanimate, tese con una regolarità desolante, annunciavano il vuoto. La nicchia non aveva più la sua statua.
Gli pareva ancora di vederla: com’era cara in quel disordine, del quale egli pure aveva la sua parte di colpa! Egli che si svegliava sempre colla prima luce del mattino, si godeva a spiare la vaga dormente… I capelli biondi, disciolti coprivano quasi tutto il guanciale, disegnandosi in capricciosi errori attorno al collo e sulle spalle seminude. La bocca umida, le guance fatte rosee da una mite traspirazione… Ricordava ancora quel seno turgido e candidissimo che si rialzava ad ogni respiro. Vinto dalla seduzione di quelle memorie, Prospero Anatolio chiuse gli occhi e, piegandosi dove lo trascinava l’immaginazione sua riscaldata, fece l’atto col quale gli piaceva meglio di risvegliare la giovine sposa: Egli con un soffio leggerissimo usava smuovere prima i capelli dalla fronte di lei, poi i riccioli ribelli che le si torcevano sulla nuca moltiplicandosi: accarezzava col fiato quella bocca socchiusa, fresca, ridente, quel seno pulsante di giovinezza; e, in preda sempre alla irritante visione, egli la vide ancora una volta scuotersi con un fremito, aprire gli occhi, guardarlo trasognata; la vide arrossire, sorridere, gettare un grido di bambina, e poi, vergognosa, stringerlo colle bellissime braccia, nascondergli la testa sul petto, coprendogli il volto con una grossa onda di capelli. Ma tutto ciò gli appariva come in un sogno. Maria era sparita… sparita per sempre.
In preda a tanta follia di desideri, Anatolio si rivoltò smaniando nel letto e finì, senza volerlo, col buttarsi là, rannicchiandosi, dove avrebbe voluto la donna; la donna non c’era più, ma le coltri, le lenzuola, tutta insomma quella parte del letto esalava ancora il profumo della sua carne… un profumo caldo, acuto, inebbriante, che lo aveva involto, con fascini occulti, in quella frenesia convulsa e voluttuosa. Ansando, febbricitante, strinse allora, contro il petto villoso, il guanciale di sua moglie; lo baciò, lo morse e: – Mio Dio – balbettò – co… come so… sono infelice!
X
Quel giorno, nel quale Maria volle partire, Firenze era gaia più del solito: godeva una bella giornata di primavera, quantunque si fosse ancora in febbraio. Ma quando la locomotiva uscì avvolta di fumo dall’alta tettoia, ove l’incessante frastuono di un mondo riboccante di vita dava l’ultimo addio ai viaggiatori; quando quel mostro di ferro, novello Mefistofele, gittate in alto il suo sibilo, e salutate
« . . . . le convalli
Popolate di case e d’oliveti»
salì sbuffando e poi scese dall’alto declivio dell’Appennino, allora, si passò con brusca rapidità dal giovane Oriente – tepido e profumato – al freddo e ai ghiacci della vecchia Siberia.
Quanto freddo e quanta neve!…
Quel lenzuolo uniforme e bianchissimo tormentava l’occhio e intirizziva lo spirito. Correndo in quel pelago morto e ghiacciato si soffriva l’ansia del naufrago. Non un cespuglio verde, non un filo d’erba che vi rompesse l’uniformità monotona e desolante. Di lontano le case perdute nei campi, serrate dalla miseria e dal freddo, colle muraglie, per il riflesso della neve fatte ancor più tetre, parevano senz’anima viva. Gli alberi aridi, brulli, senza una foglia, screpolati, quasi scheletri immani imprecanti in quel vasto deserto. Non vi era cielo lontano, nè profilo di montagne, nè allegria di borgate dai vecchi castelli o dai nuovi campanili. Una nebbia umida e fitta chiudeva l’orizzonte, la locomotiva sembrava correre precipitando nel vuoto.
Lalla, poverina, sopportava i disagi con sufficiente coraggio. Dopo aver pianto disperatamente abbandonando il suo babbo, alla prima stazione aveva cominciata a ridere, alla seconda a mangiare e alla terza, stanca, si era addormentata.
Chi brontolava, chi sarebbe ritornata indietro, magari a piedi, chi non sapeva giustificare