Sentiva che i giorni lieti erano finiti. Fra la sua vita presente e quella di qualche mese prima vi era un abisso; allora ella viveva in pieno sole, respirando con delizia l’aura della gioventù; tutto le piaceva, tutto la divertiva, tutto aveva uno scopo ed ella sorrideva a tutto. La sua giornata era tutta occupata; l’amore illuminava ogni cosa con il suo raggio immortale; tutte le persone che l’avvicinavano l’erano simpatiche; dovunque si trovava nel proprio elemento. Ora invece, ad ogni nuovo mattino che veniva a risvegliarla doveva aprire gli occhi dolorosamente, domandando a sè medesima a che serve la vita; si alzava, si vestiva macchinalmente; parlava e le sembrava che il linguaggio che udiva non fosse il suo, si sedeva al letto di sua madre e quasi non se ne moveva che per andare a pranzo con gli altri, il che era un piccolo supplizio quotidiano. Poi, alla sera, appena lo poteva, si chiudeva nella sua stanza, scriveva tristamente ad Alberto, non più con l’espansione dei primi tempi, ma nascondendogli le sue pene per non annoiarlo inutilmente, e poi cercava il sonno. Si vestiva alla mattina e si svestiva alla sera, nè più si curava di quella eleganza sua propria che era uno dei distintivi del suo carattere; non le rimaneva che quella parte che nulla poteva toglierle. Se qualcuno di coloro che l’avevano incontrata a caso sulle montagne della Svizzera, con la veste grigia sollevata sopra la sottana rossa, l’occhio pieno di luce e di allegrezza, il piede fermo e il passo agile, la guancia rosea di gioventù e di salute – l’alpenstock alla mano e il cappellino tutto coperto di rose selvatiche; o nella sua piccola villa, di estate, tutta avvolta in una mussola fresca, leggera, che scorreva sveltamente sulla minuta sabbia dei viali, mentre si metteva le due mani alla bocca per chiamare Alberto dalla sua stanza del primo piano – la rivedesse ora, crederebbe avere dinanzi agli occhi qualcosa di somigliante alla visione di prima come l’ombra alla realtà.
Scriveva alla contessa:
«Non sono più quella che tu conosci; se mi avessi a vedere, saresti forse spaventata dal mio aspetto; le mie lettere ti mostreranno quanto si sia mutato il mio carattere e come ogni coraggio mi abbia lasciato. Il vuoto si fa intorno e dentro di me; capisco che in me stessa come nella mia vita c’è qualcosa che si rompe, sento che nulla più mi appartiene, fuorchè il passato. Ti ringrazio mille volte per le tue buone parole; e per la tua amicizia che è sempre la stessa, ti sono sempre egualmente riconoscente: ma che vuoi? da quando ci parlammo ad ora sono passati dieci anni per me. Come vorrei vederti! – Le mille paure che mi agitavano una volta non le sento più, e la gelosia non mi rode; ma sono certa che oramai sono qualcosa di ben secondario nella sua vita. Doveva essere così, ma è orribile saperlo. Non credo ch’egli sia cambiato, ma so di non essergli in alcun modo necessaria; egli mi ama forse ancora, ma è impossibile che pensi molto a me e l’oblio è ben vicino all’indifferenza. Essere dimenticata! il peggio di tutto.
«Le sue lettere mi fanno un male indescrivibile; sono dolci e buone come sempre, ma scritte per coscienza; talvolta cortissime e frettolose; si vede ch’egli ruba a stento il quarto d’ora dedicato a provarmi che si ricorda di me; so che lo fa per abitudine e per pietà; glie ne sono grata malgrado tutto, ma ciò mi sembra ben crudele. Io lo amo come sempre e non lo incolpo affatto. Non poteva io sperare di riempiere la sua vita. Non m’interesso più a nulla, non leggo, parlo poco e vorrei non pensare. Vegeto, e ringrazio il cielo di essere utile nell’assistere mia madre. Oh! Dio, quanta tristezza mi circonda! Non so cosa succederà di me, ma credo che sarà ben poco. La primavera si avvicina; ieri era una giornata magnifica e stamane vedo dalla mia finestra la gente che va a spasso per godere del bel sole. Oggi voglio uscire anch’io tanto per distrarmi un tantino, ma non mi sento bene da un pezzo e la più corta passeggiata mi stanca. Talvolta un’idea fissa s’impadronisce di me e non me ne so più distaccare; questa notte per esempio mi ricordava gli spropositi e la figura grottesca d’un cicerone che ne condusse per il castello di Heidelberg e che non ho mai potuto rammentare senza ridere, e mi sentii nel cuore un’amarezza indicibile. Mi sento invecchiata e mi pare di essere lontana da tutto ciò che mi rese felice; pure sono i miei ricordi più recenti. Eppure sono calma; non vi è alcun mutamento nelle mie maniere, non mi accorgo quasi io stessa di soffrire, e quelli che mi avvicinano certo non se ne accorgono affatto. Il mio è un dolore purissimo, poichè non so darne a lui alcuna colpa e mi ci ero da un pezzo preparata; mi ritiro tutta in me stessa e non oso misurarlo. La malattia di mia madre intanto fa progressi incessanti; tutte le mattine il medico crolla il capo e non sa fare altro.»
Alla morte di sua madre, Emilia pianse lungamente e quelle lagrime fu lenta a poterle rasciugare; ma d’un tratto si sentì estranea in quella famiglia, ch’era stata riunita solo per prestare assistenza a colei che non era più; ripassò per la medesima strada che aveva percorsa pochi mesi prima e ritornò nella casetta dei giorni felici. La prima impressione fu strana. Una serenità blanda e profonda la invase tutta e con essa una malinconia meno triste; ma la casa le sembrava il fantasma di quella che aveva abitato.
Alberto aveva quasi terminato il suo lavoro. In breve avrebbe potuto cogliere il frutto delle sue fatiche. Il momento tanto atteso era vicino. Si sentiva circondato da un’aura di speranza. Tutto il resto scompariva dinanzi al suo sguardo. Lavorava indefessamente – quando, una sera, ricevette una lettera di Emilia con la data di Firenze e una larga riga nera all’intorno. Era una lettera breve, triste, calma; tra l’altre cose diceva: «non avendo oramai più nulla che mi tenesse colà, sono tornata qui per preparare e stabilire ogni cosa», ma non diceva «ti aspetto». – Alberto era occupatissimo e come preso in un vortice; non gli era possibile partire da un’ora all’altra, ma affrettò ogni cosa per poter presto raggiungere colei che certo lo aspettava con impazienza. Non poteva negare a sè medesimo che non l’amava più come una volta; desiderava molto rivederla, ma allo stesso tempo non si sapeva togliere ai novelli vincoli possenti e soavi che lo trattenevano. Oh s’egli fosse stato in una simile circostanza in altri tempi! Anche se trattenuto da un interesse fortissimo, come avrebbe lasciato ogni cosa, per correre da quella che tutta gli riempiva la vita! Ora invece voleva partire, ma quasi inconsciamente esitava a togliersi all’atmosfera inebriante in cui si trovava. E d’ora in ora ritardava, senza quasi rendersene conto. Benchè, partendo, andasse verso l’amore, verso il sole, pure provava uno strazio nel lasciare la sua nuova esistenza; l’attrazione lontana, sebbene non osasse confessarselo, era meno forte di quella vicina.
L’amico indovinava tutto, ma non osava dirgli: «Non l’ami più come una volta», essendo certo di ricevere una smentita; calcolando però quanto Emilia fosse ansiosa di rivederlo e come dovesse soffrire del più piccolo ritardo, lo esortava a partire.
Ella lo aspettava infatti. Non faceva altro. Vi erano dei momenti in cui le sembrava che non dovesse più venire. L’aprile s’inoltrava ed il giardino era tutto verde e fresco; ma in quella dimora piena di luce e di fiori ella era ben triste. La solitudine è terribile quando non è rischiarata dalla speranza. Ogni ora trascorsa le sembrava una nuova prova che Alberto non l’amava più: non aveva però alcun risentimento; nessuna di quelle idee volgari che agitano in tali casi la toccavano, ma soffriva. Non sapeva cosa non avrebbe dato perchè quell’uscio sul quale dal suo angolo vicino alla finestra volgeva sempre lo sguardo, avesse ad aprirsi. Aspettare qualcuno che non viene perchè dimentica è una delle grandi miserie della vita. Avrebbe compito qualunque sacrificio per affrettare di un’ora il suo arrivo. Al tempo stesso gli scriveva: «Puoi credere quanto desidero riabbracciarti, vieni appena puoi, ma non ti affrettare per me: fa tutto quel che devi fare».
Ella soffriva intanto atrocemente. Trascinava penosamente i giorni lunghissimi in un’agonia di aspettazione. Era piena d’impazienza, di paura; le pareva che Dio la sottoponesse ad una prova superiore alle sue forze – ed interminabile.
Il momento dell’arrivo ella se lo imaginava sempre. Egli aveva scritto: «Questa sarà la mia ultima lettera; non avrò tempo di scrivere in questi ultimi giorni, in cui affretto tutto per essere con te al più presto. Spero in breve di poter finire ogni cosa e verrò a sorprenderti». E la sorpresa ella l’aspettava sempre. Dal suo posto favorito guardava il cancello e diceva fra sè: «Ecco, io sentirò la carrozza e correrò ad incontrarlo nel giardino». E a un tale pensiero una gioia inenarrabile le rigonfiava il cuore. E ogni volta che passava una carrozza, si alzava per vedere e il cuore le batteva.... ma la carrozza tirava dritto. «E se invece venisse di sera?» pensava invece talvolta. Io sarei qui vicina alla lampada, ed egli entrerebbe d’improvviso senza che io me ne accorga....
Quando