Accortosi, benchè troppo tardi, dell’imprudenza, il birro cercò di comporre la fisonomia ad una espressione di profonda concentrazione e di serietà.
Sebbene si sentisse mira agli sguardi di molti, non alzò gli occhi, non mosse ciglio, volendo dare ad intendere, o che non era stato lui che aveva battuto il piede in terra, o che aveva compiuto quell’atto inconsciamente.
Del resto, in quel momento, Lucertolo era bello a vedere. Ormai si teneva sicuro di non essere scoperto del furto da lui commesso nella camera della vecchia Tittoli, agonizzante: aveva ripreso tutta la sua maestà, tutta la sua alacrità e, a dire il vero, aveva speso una parte dei denari rubati a render più agevoli le indagini a cui si era consacrato.
L’amore dell’arte era potentissimo, radicato in questo poliziotto, che ad ogni costo, e pei fini da noi palesati, voleva far carriera e spingersi in alto.
Una prova del suo genio era stata quella di farsi mettere di servizio alle Carceri della Rota.
In tal guisa egli esercitava una duplice ed efficace sorveglianza.
Vegliava fuori su Bobi Carminati, ed entro le carceri si trovava di continuo in contatto con Nello.
Così egli non perdeva mai di vista i due punti estremi a’ quali, secondo il suo pensiero, il delitto del Vicolo della Luna era strettamente collegato.
Ma Bobi Carminati, dopo pochi mesi, gli era sfuggito.
Audace sino alla temerità, non scaltro quanto Lucertolo, ma come lui arrischiato e avventuroso, Bobi Carminati lasciava il Corpo dei Pompieri, dove era inviso, e con una misteriosa protezione trovava nientemeno il modo d’entrare nella polizia.
Cinque mesi dopo il delitto, il pompiere Bobi Carminati era divenuto famiglio in uno dei sobborghi più lontani di Firenze, e sotto la dipendenza del Capitan Bargello di Brozzi.
Appena entrato nella milizia civile, appellativo ambizioso che il governo aveva dato ad una polizia sulla quale contava molto, e che guardava con occhio davvero paterno, il Carminati non fu più chiamato per nome, perdette anche il suo nomignolo di Marrone e ricevette un soprannome, ispirato dal suo truce aspetto, dai propositi feroci, che spesso teneva, il soprannome di Boia.
Quando si trattava di fare qualche spedizione penosa, di mettere un birro risoluto, che non scherzasse, alle calcagna di qualche manigoldo, il caporale diceva: – Ci manderemo il Boia! – E già Bobi Carminati era in pochi mesi divenuto lo spauracchio dei ladri campestri e dei rompicolli che infestavano le campagne.
Il disegno di Lucertolo si era dunque allargato.
La sua operazione diveniva più brillante, acquistava nuova importanza.
Non si trattava più per lui soltanto di scoprir l’innocenza di Nello, di scovar il vero autore dell’assassinio commesso sul pittore Gandi, ma si trattava eziandio di provare che l’assassino era un suo collega, di mostrare che la polizia degenerava, che andava troppo abbassandosi, raccogliendo i suoi agenti nella feccia dello stesso volgo.
Questo doveva, tornando in discredito di coloro che allora dirigevano la polizia, sempre più mettere in grido Lucertolo, procacciargli nome tra’ suoi, poichè nei birri in quel periodo del 1831 era grande l’odio simulato verso gli altissimi capi della polizia: grande quasi quanto l’obbedienza, l’umiltà che ostentavano dinanzi ad essi.
Dieci minuti dopo che Lucertolo si era lasciato sfuggire l’improvvido atto d’impazienza, l’auditore Pantellini aveva finito di leggere la sua relazione.
L’accusa era formidabile, stringata, logica, convincente. Il rigido auditore aveva fatto un capolavoro. Nulla era sfuggito al suo acume; i più piccoli indizii, raccolti con abilità, accortamente disposti, acquistavano una forza indicibile. Il povero Nello era avvinghiato in una rete di ferro.
Durante l’esposizione dei fatti, così stringata e così inesorabile, il pubblico era rimasto di continuo perplesso, sospeso, agitato.
Tutti erano esasperati, irritati contro Nello e, dopo che l’auditore ebbe pronunziata l’ultima parola della sua relazione, vi fu un secondo di silenzio, di terribile e angoscioso silenzio.
Bisognava passare all’interrogatorio dell’inquisito,
I cuori battevano, tutti gli occhi erano rivolti verso Nello.
Lucertolo, cercato destramente il modo di parlare più volte solo con lui nella carcere, lo aveva, senza parere, o eccitar sospetti, preparato a questo interrogatorio.
Egli, dunque, ne aspettava più impaziente di ogni altro i risultati.
All’invito del presidente, Nello si alzò.
Pallido, e col labbro inferiore cadente, ma tranquillo, quasi sorridendo, fissava i suoi occhi nei giudici con una strana espressione.
Dopo averlo interrogato sulle generalità, il presidente gli disse.
– Come avete udito, voi siete accusato del delitto di tentato omicidio a scopo di furto nella persona del signor Roberto Gandi. Che cosa potete dire a vostra discolpa?
Il momento era solenne.
Tutti quelli che erano dietro la cancellata, allungavano il collo, si rizzavano sempre più in punta di piedi per veder Nello.
Quattro o cinque de’ mercatìni più arditi si permisero alcune esclamazioni, proferite a mezza voce fra le più energiche del loro linguaggio, come se volessero indurre i birri che circondavano Nello a tirarsi in disparte e così dar modo al pubblico di sodisfare la sua curiosità di veder l’inquisito.
Ma Zampa di Ferro, il Matto, Lucertolo, si voltarono con certi ceffi, che consigliavano il silenzio a’ più loquaci.
Le esclamazioni cessarono immantinente.
Nello non rispose alla prima interrogazione.
Allora il presidente con voce più scolpita rinnovò la domanda.
– Come avete udito, voi siete accusato del delitto di tentato omicidio a scopo di furto nella persona del signor Roberto Gandi. Che cosa potete dire a vostra discolpa?
– Io dichiaro – rispose Nello con voce ferma – che sono innocente.
Si udì un mormorìo di disapprovazione.
– Ricordo – disse il presidente in tuono minaccioso – che la maestà del luogo non consente interruzioni indecorose ed inutili. Dò fin d’ora ordine agli esecutori di vigilare da chi partano certe voci e di arrestare i disturbatori!… La giustizia ha bisogno di calma, non di intempestive eccitazioni.
Altri due birri entrarono nel recinto riservato al pubblico.
Pareva ormai sicuro che tutti avrebbero trattenuto anche il respiro.
– Voi dunque insistete – continuò il presidente, parlando a Nello – nell’affermare la vostra innocenza, che del resto avete dichiarato sempre nei vostri costituti?
– Giuro – disse Nello, questa volta alzando anche più la voce – che io sono innocente!
– Signor presidente – soggiunse l’Avvocato fiscale – vorrei che a complemento di quanto si trova in atti nel processo scritto, fosse domandato all’inquisito come egli passò la notte del 14 gennaio.
– Diteci come e dove passaste la notte del 14 gennaio? – richiese a Nello il presidente.
Nello rimase un istante perplesso: egli non si ricordava più di nulla.
Come abbiamo già raccontato, la sua mente debole era piena di lacune: la sua memoria era imperfetta.
L’idiota aveva tratti di apparente lucidità, si fermava con pertinacia su certe idee, ma il legame tra l’una e l’altra idea sovente gli sfuggiva; si confondeva, titubava, precipitava nelle tenebre della ragione.
Il modo con cui sapeva parlare di certi fatti estrinseci, di certe circostanze più ordinarie, impediva che i non esercitati nella conoscenza di certe misteriose malattie, di certe profonde imperfezioni dell’intelletto si persuadessero, sentissero che quel disgraziato non poteva essere responsabile.
Anche questa