Quest’ultimo complimento era diretto a me, sebbene non avessi aperto bocca, e i miei amici avevano preso ciascuno il suo con più o meno garbo, credendosi obbligati a ridere.
«Mi conosci?» gli dissi.
«Lo vedi.»
«Non c’è che dire, hai dello spirito.»
«Sì, delle volte, a tavola. vogliamo andare a tavola?»
«Ci offri da cena?» domandò il conte C***.
«No, vi offro di scommettere a chi la pagherà.»
«Benissimo! e che scommessa?»
«Scommetto che darò un bacio a quella mascherina accompagnata dal trovatore.»
«Eh!»
«Ti gira?»
«Una cena di mille lire», disse l’arlecchino senza scomporsi. Nessuno gli rispose. Lo credevamo matto.
«Sembra che le tue scommesse non ispirino gran fiducia», disse il poeta.
L’arlecchino lo guardò colla medesima calma, resa grottesca dall’aria impassibile della maschera, e rispose:
«Diamo in pegno il denaro.»
«A te?»
«No…» rispose senza dar retta al motteggio. Mi affissò un istante, e soggiunse: «Ecco le mie cinquecento lire.»
Quella preferenza mi sorprese. «Ti conosco?» gli domandai.
«Non so, ma mi hai conosciuto.»
«Dove?»
«A Catania.»
Cercai inutilmente di leggere sotto la sua maschera. Egli si levò il berretto con comica gravità e ci disse:
«Prima che finisca il veglione.»
«Ma s’è partita?» disse Arturo.
«Non è partita» rispose semplicemente l’arlecchino, e ci volse le spalle.
Egli era tutt’altro che stupido o ubbriaco; e l’imbarazzo del nostro silenzio lo confessava chiaramente.
Che cos’era dunque?
M’aggiravo a casaccio fra le maschere, ora spingendo, ora spinto, allorché sentii tirarmi per le falde dell’abito. Era di nuovo l’arlecchino, colla stessa aria d’imbecille. Egli mi disse:
«Vuoi venire con me?»
«Dove?»
«In palco.»
«Andiamo pure», risposi, curioso di sapere chi fosse.
Egli prese il mio braccio, mi fece salire al terz’ordine, e aprì un palco.
Entrando si tolse la maschera, mi guardò un attimo e mi domandò:
«Mi riconosci?»
Avevo visto un volto pallidissimo, assai magro, con gli occhi luccicanti, come per febbre, e incavernati in un’orbita accerchiata di livido, con certi baffetti biondi appena visibili, e le labbra pallide.
«No» risposi «Non ti riconosco.»
Egli sorrise tristemente. «Ah!» esclamò, «son molto cambiato!… Enrico Lanti.»
«Infatti… adesso mi rammento…»
«Fummo a scuola insieme. Tu avevi una giacchetta coi bottoni dorati ch’era la tua disperazione, perché tutti ti canzonavano. Io ero così grasso che mi chiamavano badduzza; ti rammenti?»
«Sì.»
«Adesso non son più badduzza!» diss’egli; e l’accento contrastava stranamente con la parola.
«È vero, sei molto cambiato.»
Egli tossì due o tre volte e non rispose.
Il silenzio si prolungava troppo; per dire qualche cosa gli domandai se egli fosse da molto tempo in Firenze.
«Da due anni» rispose.
«Sei pittore, mi sembra.»
«Sì.» mi disse, con un sorriso che non dimenticherò mai più.
E dopo un istante:
«Anche tu hai la malattia dell’arte!»
«La malattia?»
«Vuoi chiamarla follia?» diss’egli con lo stesso sorriso amaro. «Non discutiamo sulle parole: è una malattia del cervello o del cuore, non mi picco gran fatto di fisiologia – ma so ch’è un gran malanno… Vedi, non son più badduzza… ed ho la febbre.»
Si tolse il guanto e mi porse la mano, che scottava.
«Ma tanto meglio!» riprese con lo stesso tono, ridendo sempre in modo strano. «Ti ho cercato appunto per questo. Avevo bisogno di uno come te… Tu non mi riderai in faccia almeno… Ed io non voglio che si rida di me!…»
Gli occhi gli brillavano febbrilmente, e parlava concitato assai. Incominciai a temere che fosse matto sul serio.
Tutt’a un tratto egli mi domandò bruscamente:
«Andrai in Sicilia?»
«Forse.»
«Conosci la mia famiglia?»
«No»
«La conoscerai» soggiunse «son brava gente; non son signori, ma potrai stringer loro la mano francamente… e parlar di me… Non dire di cotesta scommessa però, e in caso di disgrazia non dire come sono morto… La mia povera mamma piangerebbe anche la perdita dell’anima mia… Dì che son morto di tifo, di miliare, in buona casa – ché in Sicilia l’idea dell’ospedale stringe il cuore – e che sono stato assistito dagli amici fino all’ultimo momento…»
«Ma che discorsi mi fai!»
Egli mi guardò sorpreso, come se avessi rotto il filo logico di premesse ben stabilite, e rispose tranquillamente:
«Ma io potrei anche essere ucciso invece di uccidere.»
E ne parlava con calma sinistra.
«Che?…»
«Tò! non ti rammenti della scommessa?»
Allora il vero scopo di quella follia mi balenò in mente nudo e minaccioso.
«Ti batterai?»
«Oh!!» esclamò con un sorriso indefinibile che era quasi lugubre su quel volto cadaverico.
«Odii quell’uomo?»
«Sì» mormorò coi denti stretti, «e l’ucciderò!»
«Per colei?»
«Sì!»
«L’ami!»
Egli trasalì.
«La odio! La disprezzo! Vorrei morderla, vorrei schiaffeggiarla!… vorrei pestarmela sotto i piedi!»
Tossì di nuovo e soffocò la tosse col fazzoletto. Questa volta lo sforzo fu così violento che egli chiuse gli occhi, e sulle sue guance pallidissime passarono certe fiamme di malaugurio. Allorché riaprì gli occhi mi sembrò di vedere un cadavere. Egli mi disse con voce intieramente mutata da un istante all’altro:
«Tu lo vedi, se non muoio di spada morrò di qualche altra cosa. Ma non penso a ciò che per i miei poveri genitori, e per la mia sorellina… Stringendo la tua mano mi sembra di stringermi al cuore quei poveretti che saranno tanto afflitti…Ecco perché ho voluto parlarti. Non è vero che in certi momenti, quando siamo molto lontani dalla famiglia, proviamo delle strane tenerezze per le persone che ce la rammentano, o che hanno il più lontano rapporto con essa?»
«Mio caro… tu esageri…»
«Io esagero?» rispose con lo stesso sorriso. «Va’ a chiederlo ai medici di Santa Maria Nuova se esagero… o vieni alle Cascine fra le sei e le sette…»
«Cotesto duello è dunque inevitabile?»
Egli mi guardò sorpreso.
«A