Feci un bel fiasco. Si era ancora a tavola dopo cena. Egli, senza rispondere, si levò dalla sedia, vuotò ancora il suo bicchiere e disse:
– Non è questa l’ora di filosofare specialmente con te!
E uscì. Dispiacente lo seguii e pensai di restare con lui per distoglierlo dai pensieri tristi. M’allontanò dicendomi che gli ricordavo la morte e i suoi piaceri.
Non sapeva dimenticare il testamento finché non me ne aveva data comunicazione. Se ne ricordava ogni qualvolta mi vedeva. Una sera scoppiò:
– Devo dirti che ho fatto testamento.
Io, per stornarlo dal suo incubo, vinsi subito la sorpresa che mi produsse la sua comunicazione e gli dissi:
– Io non avrò mai questo disturbo perché spero che prima di me muoiano tutti i miei eredi!
Egli subito si inquietò del mio riso su una cosa tanto seria e ritrovò tutto il suo desiderio di punirmi. Così gli fu facile di raccontarmi il bel tiro che m’aveva fatto mettendomi sotto la tutela dell’Olivi.
Devo dirlo: io mi dimostrai un buon ragazzo; rinunziai a fare un’obiezione qualunque pur di strapparlo a quel pensiero che lo faceva soffrire. Dichiarai che qualunque fosse stata la sua ultima volontà io mi vi sarei adattato.
– Forse – aggiunsi – io saprò comportarmi in modo che tu ti troverai indotto a cambiare le tue ultime volontà.
Ciò gli piacque anche perché vedeva ch’io gli attribuivo una vita lunga, anzi lunghissima. Tuttavia volle da me addirittura un giuramento, che se egli non avesse disposto altrimenti, io non avrei mai tentato di sminuire le facoltà dell’Olivi. Io giurai visto ch’egli non volle contentarsi della mia parola d’onore. Fui tanto mite allora, che quando sono torturato dal rimorso di non averlo amato abbastanza prima che morisse, rievoco sempre quella scena. Per essere sincero devo dire che la rassegnazione alle sue disposizioni mi fu facile perché in quell’epoca l’idea di essere costretto a non lavorare m’era piuttosto simpatica.
Circa un anno prima della sua morte, io seppi una volta intervenire abbastanza energicamente a vantaggio della sua salute. M’aveva confidato di sentirsi male ed io lo costrinsi di andare da un medico dal quale anche lo accompagnai. Costui prescrisse qualche medicinale e ci disse di ritornare da lui qualche settimana dopo. Ma mio padre non volle, dichiarando che odiava i medici quanto i becchini e non prese neppure la medicina prescrittagli perché anch’essa gli ricordava medici e becchini. Restò per un paio di ore senza fumare e per un solo pasto senza vino. Si sentì molto bene quando poté congedarsi dalla cura, e io, vedendolo più lieto, non ci pensai più.
Poi lo vidi talvolta triste. Ma mi sarei meravigliato di vederlo lieto, solo e vecchio com’era.
Una sera della fine di marzo arrivai un po’ più tardi del solito a casa. Niente di male: ero caduto nelle mani di un dotto amico che aveva voluto confidarmi certe sue idee sulle origini del Cristianesimo. Era la prima volta che si voleva da me ch’io pensassi a quelle origini, eppure m’adattai alla lunga lezione per compiacere l’amico. Piovigginava e faceva freddo. Tutto era sgradevole e fosco, compresi i Greci e gli Ebrei di cui il mio amico parlava, ma pure m’adattai a quella sofferenza per ben due ore. La mia solita debolezza! Scommetto che oggi ancora sono tanto incapace di resistenza, che se qualcuno ci si mettesse sul serio potrebbe indurmi a studiare per qualche tempo l’astronomia.
Entrai nel giardino che circonda la nostra villa. A questa si accedeva per una breve strada carrozzabile. Maria, la nostra cameriera, m’aspettava alla finestra e sentendomi avvicinare gridò nell’oscurità:
– È lei, signor Zeno?
Maria era una di quelle fantesche come non se ne trovano più. Era da noi da una quindicina d’anni. Metteva mensilmente alla Cassa di Risparmio una parte della sua paga per i suoi vecchi anni, risparmi che però non le servirono perché essa morì in casa nostra poco dopo il mio matrimonio sempre lavorando.
Essa mi raccontò che mio padre era ritornato a casa da qualche ora, ma che aveva voluto attendermi a cena. Allorché essa aveva insistito perché egli intanto mangiasse, era stata mandata via con modi poco gentili. Poi egli aveva domandato di me parecchie volte, inquieto e ansioso. Maria mi fece intendere che pensava che mio padre non si sentisse bene. Gli attribuiva una difficoltà di parola e il respiro mozzo. Debbo dire ch’essendo sempre sola con lui, essa spesso s’era fitto in testa il pensiero ch’egli fosse malato. Aveva poche cose da osservare la povera donna nella casa solitaria e – dopo l’esperienza fatta con mia madre – essa s’aspettava che tutti avessero da morire prima di lei.
Corsi alla camera da pranzo con una certa curiosità e non ancora impensierito. Mio padre si levò subito dal sofà su cui giaceva e m’accolse con una grande gioia che non seppe commovermi perché vi scorsi prima di tutto l’espressione di un rimprovero. Ma intanto bastò a tranquillarmi perché la gioia mi parve un segno di salute. Non scorsi in lui traccia di quel balbettamento e respiro mozzo di cui aveva parlato Maria. Ma, invece di rimproverarmi, egli si scusò d’essere stato caparbio.
– Che vuoi farci? – mi disse bonariamente. – Siamo noi due soli a questo mondo e volevo vederti prima di coricarmi.
Magari mi fossi comportato con semplicità e avessi preso fra le mie braccia il mio caro babbo divenuto per malattia tanto mite e affettuoso! Invece cominciai a fare freddamente una diagnosi: Il vecchio Silva si era tanto mitigato? Che fosse malato? Lo guardai sospettosamente e non trovai di meglio che di fargli un rimprovero:
– Ma perché hai atteso finora per mangiare? Potevi mangiare, eppoi attendermi!
Egli rise assai giovanilmente:
– Si mangia meglio in due.
Poteva questa lietezza essere anche il segno di un buon appetito: io mi tranquillai e mi misi a mangiare. Con le sue ciabatte di casa, con passo malfermo, egli s’accostò al desco e occupò il suo posto solito. Poi stette a guardarmi come mangiavo, mentre lui, dopo un paio di cucchiaiate scarse, non prese altro cibo e allontanò anche da sé il piatto che gli ripugnava. Ma il sorriso persisteva sulla sua vecchia faccia. Soltanto mi ricordo, come se si trattasse di cosa avvenuta ieri, che un paio di volte ch’io lo guardai negli occhi, egli stornò il suo sguardo dal mio. Si dice che ciò è un segno di falsità, mentre io ora so ch’è un segno di malattia. L’animale malato non lascia guardare nei pertugi pei quali si potrebbe scorgere la malattia, la debolezza.
Egli aspettava sempre di sentire come io avessi impiegato quelle tante ore in cui egli m’aveva atteso. E vedendo che ci teneva tanto, cessai per un istante di mangiare e gli dissi secco, secco, ch’io fino a quell’ora avevo discusse le origini del Cristianesimo.
Mi guardò dubbioso e perplesso:
– Anche tu, ora, pensi alla religione?
Era evidente che gli avrei dato una grande consolazione se avessi accettato di pensarci con lui. Invece io, che finché mio padre era vivo mi sentivo combattivo (e poi non più) risposi con una di quelle solite frasi che si sentono tutti i giorni nei caffè situati presso le Università:
– Per me la religione non è altro che un fenomeno qualunque che bisogna studiare.
– Fenomeno? – fece lui sconcertato. Cercò una pronta risposta e aperse la bocca per darla. Poi esitò e guardò il secondo piatto, che giusto allora Maria gli offerse e ch’egli non toccò. Quindi per tapparsi meglio la bocca, vi ficcò un mozzicone di sigaro che accese e che lasciò subito spegnere. S’era così concessa una sosta per riflettere tranquillamente. Per un istante mi guardò risoluto:
– Tu non vorrai ridere della religione?
Io, da quel perfetto studente scioperato che sono sempre stato, con la bocca piena, risposi:
– Ma che ridere! Io studio!
Egli tacque e guardò lungamente il mozzicone di sigaro che aveva deposto su un piatto. Capisco ora perché egli mi avesse detto ciò. Capisco ora tutto quello che passò per quella mente già torbida,