Invece di altre ispirazioni, capitò la zia Rosina, una sorella di Giovanni, più vecchia di lui, ma di lui molto meno intelligente. Aveva però qualche tratto della sua fisonomia morale bastevole a caratterizzarla quale sua sorella. Prima di tutto la stessa coscienza dei proprii diritti e dei doveri altrui alquanto comica, perché priva di qualsiasi arma per imporsi, eppoi anche il vizio di alzare presto la voce. Essa credeva di aver tanti diritti nella casa del fratello che – come appresi poi – per lungo tempo considerò la signora Malfenti quale un’intrusa. Era nubile e viveva con un’unica serva di cui parlava sempre come della sua più grande nemica. Quando morì raccomandò a mia moglie di sorvegliare la casa finché la serva che l’aveva assistita non se ne fosse andata. Tutti in casa di Giovanni la sopportavano temendo la sua aggressività.
Ancora non me ne andai. Zia Rosina prediligeva Ada fra le nipoti. Mi venne il desiderio di conquistarmene l’amicizia anch’io e cercai una frase amabile a indirizzarle. Mi ricordai oscuramente che l’ultima volta in cui l’avevo vista (cioè intravvista, perché allora non avevo sentito il bisogno di guardarla) le nipoti, non appena essa se ne era andata, avevano osservato che non aveva una buona cera. Anzi una di esse aveva detto:
– Si sarà guastato il sangue per qualche rabbia con la serva!
Trovai quello che cercavo. Guardando affettuosamente il faccione grinzoso della vecchia signora, le dissi:
– La trovo molto rimessa, signora.
Non avessi mai detta quella frase. Mi guardò stupita e protestò:
– Io sono sempre uguale. Da quando mi sarei rimessa?
Voleva sapere quando l’avessi vista l’ultima volta. Non ricordavo esattamente quella data e dovetti ricordarle che avevamo passato un intero pomeriggio insieme, seduti in quello stesso salotto con le tre signorine, ma non dalla parte dove eravamo allora, dall’altra. Io m’ero proposto di dimostrarle dell’interessamento, ma le spiegazioni ch’essa esigeva lo facevano durare troppo a lungo. La mia falsità mi pesava producendomi un vero dolore.
La signora Malfenti intervenne sorridendo:
– Ma lei non voleva mica dire che zia Rosina è ingrassata?
Diavolo! Là stava la ragione del risentimento di zia Rosina ch’era molto grossa come il fratello e sperava tuttavia di dimagrire.
– Ingrassata! Mai più! Io volevo parlare solo della cera migliore della signora.
Tentavo di conservare un aspetto affettuoso e dovevo invece trattenermi per non dirle un’insolenza.
Zia Rosina non parve soddisfatta neppur allora. Essa non era mai stata male nell’ultimo tempo e non capiva perché avesse dovuto apparire malata. E la signora Malfenti le diede ragione:
– Anzi, è una sua caratteristica di non mutare di cera – disse rivolta a me. – Non le pare?
A me pareva. Era anzi evidente. Me ne andai subito. Porsi con grande cordialità la mano a zia Rosina sperando di rabbonirla, ma essa mi concedette la sua guardando altrove.
Non appena ebbi varcata la soglia di quella casa il mio stato d’animo mutò. Che liberazione! Non avevo più da studiare le intenzioni della signora Malfenti né di forzarmi di piacere alla zia Rosina. Credo in verità che se non ci fosse stato il rude intervento di zia Rosina, quella politicona della signora Malfenti avrebbe raggiunto perfettamente il suo scopo ed io mi sarei allontanato da quella casa tutto contento di essere stato trattato bene. Corsi saltellando giù per le scale. Zia Rosina era stata quasi un commento della signora Malfenti. La signora Malfenti m’aveva proposto di restar lontano dalla sua casa per qualche giorno. Troppo buona la cara signora! Io l’avrei compiaciuta al di là delle sue aspettative e non m’avrebbe rivisto mai più! M’avevano torturato, lei, la zia ed anche Ada! Con quale diritto? Perché avevo voluto sposarmi? Ma io non ci pensavo più! Com’era bella la libertà!
Per un buon quarto d’ora corsi per le vie accompagnato da tanto sentimento. Poi sentii il bisogno di una libertà ancora maggiore. Dovevo trovare il modo di segnare in modo definitivo la mia volontà di non rimettere più il piede in quella casa. Scartai l’idea di scrivere una lettera con la quale mi sarei congedato. L’abbandono diveniva più sdegnoso ancora se non ne comunicavo l’intenzione. Avrei semplicemente dimenticato di vedere Giovanni e tutta la sua famiglia.
Trovai l’atto discreto e gentile e perciò un po’ ironico col quale avrei segnata la mia volontà. Corsi da un fioraio e scelsi un magnifico mazzo di fiori che indirizzai alla signora Malfenti accompagnato dal mio biglietto da visita sul quale non scrissi altro che la data. Non occorreva altro. Era una data che non avrei dimenticata più e non l’avrebbero dimenticata forse neppure Ada e sua madre: 5 Maggio, anniversario della morte di Napoleone.
Provvidi in fretta a quell’invio. Era importantissimo che giungesse il giorno stesso.
Ma poi? Tutto era fatto, tutto, perché non c’era più nulla da fare! Ada restava segregata da me con tutta la sua famiglia ed io dovevo vivere senza fare più nulla, in attesa che qualcuno di loro fosse venuto a cercarmi e darmi l’occasione di fare o dire qualche cosa d’altro.
Corsi al mio studio per riflettere e per rinchiudermi. Se avessi ceduto alla mia dolorosa impazienza, subito sarei ritornato di corsa a quella casa a rischio di arrivarvi prima del mio mazzo di fiori. I pretesti non potevano mancare. Potevo anche averci dimenticato il mio ombrello!
Non volli fare una cosa simile. Con l’invio di quel mazzo di fiori io avevo assunta una bellissima attitudine che bisognava conservare. Dovevo ora stare fermo, perché la prossima mossa toccava a loro.
Il raccoglimento ch’io mi procurai nel mio studiolo e da cui m’aspettavo un sollievo, chiarì solo le ragioni della mia disperazione che s’esasperò fino alle lagrime. Io amavo Ada! Non sapevo ancora se quel verbo fosse proprio e continuai l’analisi. Io la volevo non solo mia, ma anche mia moglie. Lei, con quella sua faccia marmorea sul corpo acerbo, eppoi ancora lei con la sua serietà, tale da non intendere il mio spirito che non le avrei insegnato, ma cui avrei rinunziato per sempre, lei che m’avrebbe insegnata una vita d’intelligenza e di lavoro. Io la volevo tutta e tutto volevo da lei. Finii col conchiudere che il verbo fosse proprio quello: Io amavo Ada.
Mi parve di aver pensata una cosa molto importante che poteva guidarmi. Via le esitazioni! Non importava più di sapere se ella mi amasse. Bisognava tentare di ottenerla e non occorreva più parlare con lei se Giovanni poteva disporne. Prontamente bisognava chiarire tutto per arrivare subito alla felicità o altrimenti dimenticare tutto e guarire. Perché avevo da soffrire tanto nell’attesa? Quando avessi saputo – e potevo saperlo solo da Giovanni – che io definitivamente avevo perduta Ada, almeno non avrei più dovuto lottare col tempo che sarebbe continuato a trascorrere lentamente senza ch’io sentissi il bisogno di sospingerlo. Una cosa definitiva è sempre calma perché staccata dal tempo.
Corsi subito in cerca di Giovanni. Furono due le corse. Una verso il suo ufficio situato in quella via che noi continuiamo a dire delle Case Nuove, perché così facevano i nostri antenati. Alte vecchie case che offuscano una via tanto vicina alla riva del mare poco frequentata all’ora del tramonto, e dove potei procedere rapido. Non pensai, camminando, che a preparare più brevemente che fosse possibile la frase che dovevo dirigergli. Bastava dirgli la mia determinazione di sposare sua figlia. Non avevo né da conquiderlo né da convincerlo. Quell’uomo d’affari avrebbe saputa la risposta da darmi non appena intesa la mia domanda. Mi preoccupava tuttavia la quistione se in un’occasione simile avrei dovuto parlare in lingua o in dialetto.
Ma Giovanni aveva già abbandonato l’ufficio e s’era recato al Tergesteo. Mi vi avviai. Più lentamente perché sapevo che alla Borsa dovevo attendere più tempo per potergli parlare da solo a solo. Poi, giunto in via Cavana, dovetti rallentare per la folla che ostruiva la stretta via. E fu proprio battendomi per passare traverso a quella folla, che ebbi finalmente come in una visione la chiarezza che da tante ore cercavo. I Malfenti volevano ch’io sposassi Augusta e non volevano ch’io sposassi Ada e ciò per la semplice ragione che Augusta era innamorata di me e Ada niente affatto. Niente affatto perché altrimenti non sarebbero intervenuti a dividerci. M’avevano detto