– Non si può mica bruciare la vigna, – disse lui ridendo.
– Sí, ma invece il letame lo metti nel buono…
Questi discorsi non finivano mai, perché quella voce rabbiosa lo chiamava, o passava un ragazzo dei Piola o del Morone, e Cinto si tirava su, diceva, come avrebbe detto suo padre: – Allora andiamo un po’ a vedere – e partiva. Non mi lasciava mai capire se con me si fermava per creanza o perché ci stesse volentieri. Certo, quando gli raccontavo cos’è il porto di Genova e come si fanno i carichi e la voce delle sirene delle navi e i tatuaggi dei marinai e quanti giorni si sta in mare, lui mi ascoltava con gli occhi sottili. Questo ragazzo, pensavo, con la sua gamba sarà sempre un morto di fame in campagna. Non potrà mai dare di zappa o portare i cavagni. Non andrà neanche soldato e cosí non vedrà la città. Se almeno gli mettessi la voglia.
– Questa sirena dei bastimenti, – lui mi disse, quel giorno che ne parlavo, – è come la sirena che suonavano a Canelli quando c’era la guerra?
– Si sentiva?
– Altroché. Dicono ch’era piú forte del fischio del treno. La sentivano tutti. Di notte uscivano per vedere se bombardavano Canelli. L’ho sentita anch’io e ho visto gli aeroplani…
– Ma se ti portavano ancora in braccio…
– Giuro che mi ricordo.
Nuto, quando gli dissi quel che raccontavo al ragazzo, sporse il labbro come per imboccare il clarino e scosse il capo con forza. – Fai male, – mi disse. – Fai male. Cosa gli metti delle voglie? Tanto se le cose non cambiano sarà sempre un disgraziato…
– Che almeno sappia quel che perde.
– Cosa vuoi che se ne faccia. Quand’abbia visto che nel mondo c’è chi sta meglio e chi sta peggio, che cosa gli frutta? Se è capace di capirlo, basta che guardi suo padre. Basta che vada in piazza la domenica, sugli scalini della chiesa c’è sempre uno che chiede, zoppo come lui. E dentro ci sono i banchi per i ricchi, col nome d’ottone…
– Piú lo svegli, – dissi, – piú capisce le cose.
– Ma è inutile mandarlo in America. L’America è già qui. Sono qui i milionari e i morti di fame.
Io dissi che Cinto avrebbe dovuto imparare un mestiere e per impararlo doveva uscire dalle grinfie del padre. – Sarebbe meglio fosse nato bastardo, – dissi. – Doversene andare e cavarsela. Finché non va in mezzo alla gente, verrà su come suo padre.
– Ce n’è delle cose da cambiare, – disse Nuto.
Allora gli dissi che Cinto era sveglio e che per lui ci sarebbe voluta una cascina come la Mora era stata per noi. – La Mora era come il mondo, – dissi. – Era un’America, un porto di mare. Chi andava chi veniva, si lavorava e si parlava… Adesso Cinto è un bambino, ma poi cresce. Ci saranno le ragazze… Vuoi mettere quel che vuol dire conoscere delle donne sveglie? Delle ragazze come Irene e Silvia?…
Nuto non disse niente. M’ero già accorto che della Mora non parlava volentieri. Con tanto che mi aveva raccontato degli anni di musicante, il discorso piú vecchio, di quando eravamo ragazzi, lo lasciava cadere. O magari lo cambiava a suo modo, attaccando a discutere. Stavolta stette zitto, sporgendo le labbra, e soltanto quando gli raccontai di quella storia dei falò nelle stoppie, alzò la testa. – Fanno bene sicuro, – saltò. – Svegliano la terra.
– Ma, Nuto, – dissi, – non ci crede neanche Cinto.
Eppure, disse lui, non sapeva cos’era, se il calore o la vampa o che gli umori si svegliassero, fatto sta che tutti i coltivi dove sull’orlo si accendeva il falò davano un raccolto piú succoso, piú vivace.
– Questa è nuova, – dissi. – Allora credi anche nella luna?
– La luna, – disse Nuto, – bisogna crederci per forza. Prova a tagliare a luna piena un pino, te lo mangiano i vermi. Una tina la devi lavare quando la luna è giovane. Perfino gli innesti, se non si fanno ai primi giorni della luna, non attaccano.
Allora gli dissi che nel mondo ne avevo sentite di storie, ma le piú grosse erano queste. Era inutile che trovasse tanto da dire sul governo e sui discorsi dei preti se poi credeva a queste superstizioni come i vecchi di sua nonna. E fu allora che Nuto calmo calmo mi disse che superstizione è soltanto quella che fa del male, e se uno adoperasse la luna e i falò per derubare i contadini e tenerli all’oscuro, allora sarebbe lui l’ignorante e bisognerebbe fucilarlo in piazza. Ma prima di parlare dovevo ridiventare campagnolo. Un vecchio come il Valino non saprà nient’altro ma la terra la conosceva.
Discutemmo come cani arrabbiati un bel po’, ma lo chiamarono in segheria e io discesi sullo stradone ridendo. Ebbi una mezza tentazione di passare dalla Mora, ma poi faceva caldo. Guardando verso Canelli (era una giornata colorita, serena), prendevo in un’occhiata sola la piana del Belbo, Gaminella di fronte, il Salto di fianco, e la palazzina del Nido, rossa in mezzo ai suoi platani, profilata sulla costa dell’estrema collina. Tante vigne, tante rive, tante coste bruciate, quasi bianche, mi misero voglia di essere ancora in quella vigna della Mora, sotto la vendemmia, e veder arrivare le figlie del sor Matteo col cestino. La Mora era dietro quegli alberi verso Canelli, sotto la costa del Nido.
Invece traversai Belbo, sulla passerella, e mentre andavo rimuginavo che non c’è niente di piú bello di una vigna ben zappata, ben legata, con le foglie giuste e quell’odore della terra cotta dal sole d’agosto. Una vigna ben lavorata è come un fisico sano, un corpo che vive, che ha il suo respiro e il suo sudore. E di nuovo, guardandomi intorno, pensavo a quei ciuffi di piante e di canne, quei boschetti, quelle rive – tutti quei nomi di paesi e di siti là intorno – che sono inutili e non danno raccolto, eppure hanno anche quelli il loro bello – ogni vigna la sua macchia – e fa piacere posarci l’occhio e saperci i nidi. Le donne, – pensai, – hanno addosso qualcosa di simile.
Io sono scemo, dicevo, da vent’anni me ne sto via e questi paesi mi aspettano. Mi ricordai la delusione ch’era stata camminare la prima volta per le strade di Genova – ci camminavo nel mezzo e cercavo un po’ d’erba. C’era il porto, questo sí, c’erano le facce delle ragazze, c’erano i negozi e le banche, ma un canneto, un odor di fascina, un pezzo di vigna, dov’erano? Anche la storia della luna e dei falò la sapevo. Soltanto, m’ero accorto, che non sapevo piú di saperla.
X
Se mi mettevo a pensare a queste cose non la finivo piú, perché mi tornavano in mente tanti fatti, tante voglie, tanti smacchi passati, e le volte che avevo creduto di essermi fatta una sponda, di avere degli amici e una casa, di potere addirittura metter su nome e piantare un giardino. L’avevo creduto, e mi ero anche detto «Se riesco a fare questi quattro soldi, mi sposo una donna e la spedisco col figlio in paese. Voglio che crescano laggiú come me». Invece il figlio non l’avevo, la moglie non parliamone – che cos’è questa valle per una famiglia che venga dal mare, che non sappia niente della luna e dei falò? Bisogna averci fatto le ossa, averla nelle ossa come il vino e la polenta, allora la conosci senza bisogno di parlarne, e tutto quello che per tanti anni ti sei portato dentro senza saperlo si sveglia adesso al tintinnío di una martinicca, al colpo di coda di un bue, al gusto di una minestra, a una voce che senti sulla piazza di notte.
Il fatto è che Cinto – come me da ragazzo – queste cose non le sapeva, e nessuno nel paese le sapeva, se non forse qualcuno che se n’era andato. Se volevo capirmi con lui, capirmi con chiunque in paese, dovevo parlargli del mondo di fuori, dir la mia. O meglio ancora non parlarne: fare come se niente fosse e portarmi l’America, Genova, i soldi, scritti in faccia e chiusi in tasca. Queste cose piacevano – salvo a Nuto, si capisce, che cercava lui di capir me.
Vedevo gente dentro l’Angelo, sul mercato, nei cortili. Qualcuno veniva a cercarmi, mi chiamavano di nuovo «quello del Mora». Volevano sapere che affari facevo, se compravo l’Angelo, se compravo la corriera. In piazza mi presentarono al parroco, che parlò di una cappelletta in rovina; al segretario comunale, che mi prese in disparte e mi disse che in municipio doveva esserci ancora la mia pratica, se volevamo far ricerche. Gli risposi ch’ero già stato in