Nuto mi ha detto che ha dovuto decidersi – o falegname o musicante – e cosí dopo dieci anni di festa ha posato il clarino alla morte del padre. Quando gli raccontai dov’ero stato, lui disse che ne sapeva già qualcosa da gente di Genova e che in paese ormai raccontavano che prima di partire avevo trovato una pentola d’oro sotto la pila del ponte. Scherzammo. – Forse adesso, – dicevo, – salterà fuori anche mio padre.
– Tuo padre, – mi disse, – sei tu.
– In America, – dissi, – c’è di bello che sono tutti bastardi.
– Anche questa, – fece Nuto, – è una cosa da aggiustare. Perché ci dev’essere chi non ha nome né casa? Non siamo tutti uomini?
– Lascia le cose come sono. Io ce l’ho fatta, anche senza nome.
– Tu ce l’hai fatta, – disse Nuto, – e piú nessuno osa parlartene; ma quelli che non ce l’hanno fatta? Non sai quanti meschini ci sono ancora su queste colline. Quando giravo con la musica, dappertutto davanti alle cucine si trovava l’idiota, il deficiente, il venturino. Figli di alcoolizzati e di serve ignoranti, che li riducono a vivere di torsi di cavolo e di croste. C’era anche chi li scherzava.
– Tu ce l’hai fatta, – disse Nuto, – perché bene o male hai trovato una casa; mangiavi poco dal Padrino, ma mangiavi. Non bisogna dire, gli altri ce la facciano, bisogna aiutarli.
A me piace parlare con Nuto; adesso siamo uomini e ci conosciamo; ma prima, ai tempi della Mora, del lavoro in cascina, lui che ha tre anni piú di me sapeva già fischiare e suonare la chitarra, era cercato e ascoltato, ragionava coi grandi, con noi ragazzi, strizzava l’occhio alle donne. Già allora gli andavo dietro e alle volte scappavo dai beni per correre con lui nella riva o dentro il Belbo, a caccia di nidi. Lui mi diceva come fare per essere rispettato alla Mora; poi la sera veniva in cortile a vegliare con noi della cascina.
E adesso mi raccontava della sua vita di musicante. I paesi dov’era stato li avevamo intorno a noi, di giorno chiari e boscosi sotto il sole, di notte nidi di stelle nel cielo nero. Coi colleghi di banda che istruiva lui sotto una tettoia il sabato sera alla Stazione, arrivavano sulla festa leggeri e spediti; poi per due tre giorni non chiudevano piú la bocca né gli occhi; via il clarino il bicchiere, via il bicchiere la forchetta, poi di nuovo il clarino, la cornetta, la tromba, poi un’altra mangiata, poi un’altra bevuta e l’assolo, poi la merenda, il cenone, la veglia fino al mattino. C’erano feste, processioni, nozze; c’erano gare con le bande rivali. La mattina del secondo, del terzo giorno scendevano dal palchetto stralunati, era un piacere cacciare la faccia in un secchio d’acqua e magari buttarsi sull’erba di quei prati tra i carri, i birocci e lo stallatico dei cavalli e dei buoi. – Chi pagava? – dicevo. – I comuni, le famiglie, gli ambiziosi, tutti quanti. E a mangiare, – diceva, – erano sempre gli stessi.
Che cosa mangiavano, bisognava sentire. Mi tornavano in mente le cene di cui si raccontava alla Mora, cene d’altri paesi e d’altri tempi. Ma i piatti erano sempre gli stessi, e a sentirli mi pareva di rientrare nella cucina della Mora, di rivedere le donne grattugiare, impastare, farcire, scoperchiare e far fuoco, e mi tornava in bocca quel sapore, sentivo lo schiocco dei sarmenti rotti.
– Tu ci avevi la passione, – gli dicevo. – Perché hai smesso? Perché è morto tuo padre?
E Nuto diceva che, prima cosa, suonando se ne portano a casa pochi, e poi che tutto quello spreco e non sapere mai bene chi paga, alla fine disgusta. – Poi c’è stata la guerra, – diceva. – Magari alle ragazze prudevano ancora le gambe, ma chi le faceva piú ballare? La gente si è divertita diverso, negli anni di guerra.
– Però la musica mi piace, – continuò Nuto ripensandoci, – c’è soltanto il guaio ch’è un cattivo padrone… Diventa un vizio, bisogna smettere. Mio padre diceva ch’è meglio il vizio delle donne…
– Già, – gli dissi, – come sei stato con le donne? Una volta ti piacevano. Sul ballo ci passano tutte.
Nuto ha un modo di ridere fischiettando, anche se fa sul serio.
– Non hai fornito l’ospedale di Alessandria?
– Spero di no, – disse lui. – Per uno come te, quanti meschini.
Poi mi disse che, delle due, preferiva la musica. Mettersi in gruppo – a volte succedeva – le notti che rientravano tardi, e suonare, suonare, lui, la cornetta, e il mandolino, andando per lo stradone nel buio, lontano dalle case, lontano dalle donne e dai cani che rispondono da matti, suonare cosí. – Serenate non ne ho mai fatte, – diceva, – una ragazza, se è bella, non è la musica che cerca. Cerca la sua soddisfazione davanti alle amiche, cerca l’uomo. Non ho mai conosciuto una ragazza che capisse cos’è suonare…
Nuto s’accorse che ridevo e disse subito: – Te ne conto una. Avevo un musicante, Arboreto, che suonava il bombardino. Faceva tante serenate che di lui dicevamo: Quei due non si parlano mica, si suonano…
Questi discorsi li facevamo sullo stradone, o alla sua finestra bevendo un bicchiere, e sotto avevamo la piana del Belbo, le albere che segnavano quel filo d’acqua, e davanti la grossa collina di Gaminella, tutta vigne e macchie di rive. Da quanto tempo non bevevo di quel vino?
– Te l’ho già detto, – dissi a Nuto, – che il Cola vuol vendere?
– Soltanto la terra? – disse lui. – Stai attento che ti vende anche il letto.
– Di sacco o di piuma? – dissi tra i denti. – Sono vecchio.
– Tutte le piume diventano sacco, – disse Nuto. Poi mi fa: – Sei già andato a dare un’occhiata alla Mora?
Difatti. Non c’ero andato. Era a due passi dalla casa del Salto e non c’ero andato. Sapevo che il vecchio, le figlie, i ragazzi, i servitori, tutti erano dispersi, spariti, chi morto, chi lontano. Restava soltanto Nicoletto, quel nipote scemo che mi aveva gridato tante volte bastardo pestando i piedi, e metà della roba era venduta.
Dissi: – Un giorno ci andrò. Sono tornato.
III
Di Nuto musicante avevo avuto notizie fresche addirittura in America – quanti anni fa? – quando ancora non pensavo a tornare, quando avevo mollato la squadra ferrovieri e di stazione in stazione ero arrivato in California e vedendo quelle lunghe colline sotto il sole avevo detto: «Sono a casa». Anche l’America finiva nel mare, e stavolta era inutile imbarcarmi ancora, cosí m’ero fermato tra i pini e le vigne. «A vedermi la zappa in mano», dicevo, «quelli di casa riderebbero». Ma non si zappa in California. Sembra di fare i giardinieri, piuttosto. Ci trovai dei piemontesi e mi seccai: non valeva la pena aver traversato tanto mondo, per vedere della gente come me, che per giunta mi guardava di traverso. Piantai le campagne e feci il lattaio a Oakland. La sera, traverso il mare della baia, si vedevano i lampioni di San Francisco. Ci andai, feci un mese di fame e, quando uscii di prigione, ero al punto che invidiavo i cinesi. Adesso mi chiedevo se valeva la pena di traversare il mondo per vedere chiunque. Ritornai sulle colline.
Ci vivevo da un pezzo e m’ero fatto una ragazza che non mi piaceva piú da quando lavorava con me nel locale sulla strada del Cerrito. A forza di venire a prendermi sull’uscio, s’era fatta assumere come cassiera, e adesso tutto il giorno mi guardava attraverso il banco, mentre friggevo il lardo e riempivo bicchieri. La sera uscivo fuori e lei mi raggiungeva correndo sull’asfalto coi tacchetti, mi prendeva a braccio e voleva che fermassimo una macchina per scendere al mare, per andare al cinema.
Appena fuori della luce del locale, si era soli sotto le stelle, in un baccano di grilli e di rospi. Io avrei voluto portarmela in quella campagna, tra i meli, i boschetti, o anche soltanto l’erba corta dei ciglioni, rovesciarla su quella terra, dare un senso a tutto il baccano sotto le stelle. Non voleva saperne. Strillava come fanno le donne, chiedeva di entrare in un altro locale. Per lasciarsi toccare – avevamo una stanza in un vicolo di Oakland – voleva essere sbronza.
Fu una di quelle notti che sentii raccontare di Nuto. Da un uomo che veniva da