….era una domenica in estate e per questo nessun ispettore era presente.
Fig. 8a – Trono Ludovisi, fronte
Fig. 8 b,c – Trono Ludovisi, lati sinistro e destro
Bisogna crederci? L’archeologo Lanciani riferisce che questo “trono” fu offerto in vendita al conte Tyskiewicz, un intraprendente protagonista nel mondo antiquario di allora, per 300.000 lire ma, per fortuna dei romani, questa preziosa scoperta andò ad arricchire la famosa collezione di antichità che era stata fondata dal cardinal Ludovico Ludovisi nel secolo diciassettesimo e che forma l’oggetto di un prossimo capitolo. Questo “parapetto”, come lo chiama Visconti, è oggi noto come il Trono Ludovisi. L’opera sarebbe potuta finire a Copenaghen o Berlino ma, per fortuna, è esposta oggi al Museo Nazionale Romano (Sezione di Palazzo Altemps). L’archeologo Tedesco Wolfgang Helbig (su di lui ci sarà ancora da raccontare) aveva attratto nel 1891 l’attenzione del birraio e collezionista danese Carl Jacobsen su questo importante reperto ma Jacobsen non se ne interessò perché riteneva che la scultura sarebbe stata difficile da esporre perché richiedeva luce da tre lati. Anche Reinhard von Kekulè, direttore dei Musei Reali di Berlino, rifiutò un’offerta della famiglia Boncompagni-Ludovisi perché riteneva la scultura arcaica e non tanto interessante; ma anche i proprietari dell’opera non sapevano bene cosa farsene: nel 1891 la “balaustrata” serviva da deposito per bottiglie di vino vuote. Chi non vorrebbe avere un “trono” proveniente dai giardini di Sallustio in cantina per depositarvi le sue migliori annate!
Ma qual’era la funzione di questo “trono”? La controversia dura ancor oggi; le dimensioni della base combaciano esattamente con l’apertura della fossa votiva del tempio di Afrodite a Locri. L’ipotesi che questo parapetto sia stato trasportato da un tempio di Venere a un altro è senz’altro allettante.
Nel 1901 lo stato italiano comprò dai Boncompagni-Ludovisi i 104 pezzi più importanti della collezione – tra loro il Trono Ludovisi – che si trovano oggi a Palazzo Altemps.
Un’altra simile scultura fu trovata nella stessa zona di via Sicilia/via Puglie, il cosiddetto “Trono di Boston”. Quest’opera finì prima in Inghilterra ed è esposta dal 1909 nel Museum of Fine Arts a Boston. Se sull’autenticità del Trono Ludovisi ci sono pochi dubbi, non così per il Trono di Boston: diversi archeologi ritengono che l’opera sia un falso attribuibile al gruppo Helbig/Martinetti/Jandolo. Ci ritorneremo su.
Anche se il tempio di Venere Ericina è sparito, la dea vive ancora nella Roma di oggi: il suo specchio adorna lo stemma del nuovo quartiere Sallustiano (Fig. 9). (Più correttamente i quartieri all’interno delle Mura Aureliane vengono chiamati “rioni” – l’imperatore Augusto aveva originariamente diviso la Roma di allora in 14 “Regiones“).
Fig. 9 – Lo specchio della Venere Ericina
Nella zona di via Sicilia e via Puglie furono costruite all’inizio del 20° secolo diverse scuole. Proprio là dove sono oggi le scuole erano venute alla luce già nel 1710 avanzi di pavimenti in mosaico e importanti statue di stile egizio, come Tolomeo II e Arsinoe, oggi nei Musei Vaticani.(1)
In via Puglie è ancora la scuola elementare nel cui cortile da bambini marciavamo in circolo cantando “Giovinezza” e altre canzoni fasciste. In via Sicilia è situato il Liceo-Ginnasio Torquato Tasso, dove io, subito dopo la guerra, ebbi i primi contatti con la lingua latina e con il tedesco e proprio nella zona della scuola si trovava la proprietà Vacca, dove nel 1551 venne alla luce quello che fu identificato come il tempio di Venere Ericina.
Dopo la guerra, a causa del poco spazio disponibile le lezioni al ginnasio erano organizzate su due turni: una settimana la mattina e la seguente il pomeriggio. Venivano insegnate tre lingue straniere: francese, tedesco e inglese. Gli allievi vennero distribuiti, secondo qualche arcano criterio, in una delle tre sezioni A, B e C e a me toccò la sezione B col tedesco. Non pochi dei genitori dei “germanizzati” corsero alla direzione reclamando il trasferimento ad un’altra sezione, la maggior parte, naturalmente, alla sezione d’inglese (si capirà che la Germania, dopo la guerra, non era tanto di moda). I miei genitori non se ne interessarono e per me la cosa era anche indifferente. Non c’è bisogno di dire che la mia sezione, quella del tedesco, era la più piccola di tutte.
La nostra insegnante di tedesco era una cinquantenne dai modi bruschi e il suo aspetto corrispondeva un po´ all’idea che ci eravamo fatti delle donne tedesche: durante la guerra avevamo conosciuto soltanto soldati tedeschi e nelle nostre teste si era formata una certa immagine delle loro donne. Questa signora era stata prima della guerra in Germania e ne era tornata con una grande ammirazione per le conquiste della società germanica. Molto spesso dovevamo condividere la sua ammirazione per il sistema di trasporto di una qualche grande città (Amburgo? Berlino?): c’era un sistema di ferrovia sotterranea, anche tram come da noi ma, in più, una ferrovia che correva al di sopra delle strade. La cosa più interessante era naturalmente la descrizione delle scenette familiari che s’intravedevano dai finestrini del treno che passava “così vicino” alle abitazioni.
Tra di noi abbiamo mormorato che la cara signora era forse un’ammiratrice di Hitler. Se era così, non l’ha mai dato a vedere; non sarebbe stata neanche una buona idea.
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