Ecco qualche esempio significativo. In una lettera, la Fam. 5, 14, variamente datata al 1343, 1345, 1347 e 1351, lamentandosi di non poter cacciare un vecchio servo rabbioso il Petrarca scrive: quem fugare non licet, fugiam, cioè, giocando su fugare / fuggire, «visto che non posso cacciarlo, me ne fuggirò io».20 È un caso minimo, certo, ma ecco che lo stesso gioco di parole è investito da una riflessione di tono piú serio nelle parole ammonitrici con le quali si conclude il primo libro del De vita solitaria: «Che dunque, se non ricorrere al mio solito consiglio, di fuggire dai mali che non possiamo scacciare? A ciò, l’unica salvezza e rifugio che conosco è una vita solitaria».21 E piú tardi, di nuovo, raccomandando di mettersi al riparo dai «minuti fastidî» della vita che non si riescono a evitare altrimenti: «Ama il silenzio dei boschi: occorre fuggire dalle cose che non si possono né sopportare né scacciare».22 Alla fine di novembre 1347 il Petrarca, arrivato a Genova da Avignone, scrive a Cola la famosa lettera con la quale gli dichiara d’abbandonarne la causa e di lasciarlo al suo destino, e tra altre cose scrive qualcosa che, ormai lo sappiamo, occupa una parte importante nella sua visione della vita: «Perché dovrei torturarmi? Le cose andranno cosí come l’eterna legge del destino ha stabilito: non posso cambiare il corso delle cose, ma posso fuggirle […]».23 Qui non siamo dinanzi ai ‹minuti fastidî›, ma a una situazione che impone una precisa scelta di vita e raccomanda la fuga come un vero e proprio imperativo morale: ancora nel 1356, del resto, contro i focolai di guerra che rendono insicura parte del nord-Italia, il Petrarca confessa al Nelli che non c’è miglior rimedio della fuga (quod remedii genus optimum fuga est).24 Altre occorrenze non mancano, specie nel primo libro del De vita solitaria e nei numerosi testi che esaltano quale modello di vita il ritiro valchiusano, opposto a quello della fetida e corrotta Avignone / Babilonia: vd. tra tanti Rvf 114, 1–4: «De l’empia Babilonia, ond’è fuggita/ ogni vergogna, ond’ogni bene è fori,/ albergo di dolore, madre d’errori,/ son fuggito io per allungar la vita».25 Spesso il Petrarca ripete ch’è opportuno fuggire dalla città, dal contatto con il volgo, dai fastidî della vita quotidiana: si veda come sia esaltata la laborum fuga sin nell’intitolazione di Fam. 11, 5, e addirittura positivamente equiparato l’esilio alla fuga in Fam. 21, 9, 15: «quello che chiamano esilio non è altro che una fuga da innumerevoli fastidi» (id quod exilium vocant, fugam innumerabilium curarum). Questo continuo, vario e spesso sottile ‹elogio della fuga› abilmente e sottilmente intrecciato all’‹elogio dell’esilio› che percorre le pagine del Petrarca ci fa tornare alla seconda lettera a Cicerone, Fam. 24, 4, 2, che, sopra, ha costituito uno dei punti di partenza di questo discorso, e ce lo fa meglio comprendere. Rimandandoci, per esempio, al tentativo di Cola che ha finito per rimettere all’ordine del giorno il problema dei rapporti del Petrarca con i vecchi padroni e con la curia tutt’intera, e ha creato, insieme, le condizioni di non ritorno per la fuga risolutrice che non solo taglia con una serie di compromissioni vecchie e nuove, ma pone, in alternativa, un’esigenza di libertà finalmente e chiaramente intesa all’edificazione di un autonomo ed esemplare progetto di vita. L’ultimo provvisorio soggiorno in Provenza, dal giugno 1351 al giugno 1353, è una sorta di parentesi che non sovverte questa linea, che ne riesce, semmai, confermata. Proprio nel 1352 il Petrarca, infatti, scrive al Cavalchini che unica soluzione per entrambi è quella di fuggire dalla pestifera Avignone, e nell’aprile dello stesso anno ripete che dinanzi a quella ‹spelonca di ladroni› che la curia è diventata non esiste altro rimedio che il piacere della fuga.26 E infine, sempre in quell’aprile, nella Fam. 15, 7 diretta a Stefano Colonna prevosto di Saint-Omer, passando in rassegna la situazione politica dell’Italia e dell’Europa, ripropone con efficace retorica il motivo dell’intima dialettica che corre tra costrizione e libertà:
Fa quello che fanno gli uomini puliti, e non solo gli uomini ma anche alcuni animali di pelo candido che hanno paura della sporcizia e che, uscendo dalla tana, se vedono che il terreno attorno è lordo di fango, ritraggono il piede e tornano a riparare nel loro nascondiglio. Cosí anche tu, se non trovi da alcuna parte ove avere quiete e riposo, rientra nella tua camera e torna a te stesso: veglia con te, parla e taci con te, passeggia con te, fermati con te, e stai certo che non sei solo se stai con te […].27
Potremmo anche tradurre la dicotomia tra costrizione e libertà con quella tra la storia e l’individuo, che proprio attraverso le ‹prove› alle quali è costretto ha modo d’esercitare la propria libertà e d’alimentare il mito della propria separatezza intesa come la garanzia d’una superiorità criticamente ed eticamente fondata nei confronti del proprio tempo. Una separatezza che definisce nettamente i contorni dell’io e della scena che gli appartiene e nella quale agisce, ricavando gran parte della sua consistenza drammatica e del suo fascino dall’originaria rottura, subíta e cercata