Qual è dunque, o quale fu, la patria dell’Alberti? Invero, e almeno in pienezza di termini, né l’una né l’altra di tali due città. Rileviamo ancora come nei suoi scritti l’aggettivo «patrius, -a, -um» ricorra, anche nel femminile sostantivato «patria», non troppo di rado e, per esempio, altresí in diretta relazione con la lingua da lui adottata nell’opera senz’altro per noi piú interessante, i libri de Familia intendo – lingua definita con decisione (oltreché con apprezzabile precisione etimologica) come «patrius sermo» in Vita, 13. Basta però ricordare come l’espressione sia per il solito, in terra di Francia, tradotta con «langue maternelle» per misurare tutta la distanza che indiscutibilmente intercorre fra il senso etimologico del termine che ci interessa e ogni sua piú moderna accezione. E per misurare nel contempo tutta la complessità e la difficoltà dell’impresa di chi si accinga a indagare i concreti sentimenti e legami del grande umanista servendosi di spogli lessicali o linguistici, e intenda dunque poggiare la propria analisi sull’improprio, nel nostro caso, fondamento della frequenza di questo o quel termine e di questa o quell’espressione nella sua opera scritta. Tanto piú che non sembra possano rinvenirvisi determinazioni o specificazioni del termine «patria» quali sarebbero, e.g., gli aggettivi «fiorentina» o «genovese».
In particolare, nessun accenno al luogo di nascita e, parallelamente, nessuna rivendicazione di fiorentinità, né invero di qualche speciale o semplicemente significativo proprio legame con Firenze o con Genova, è dato di rinvenire nell’autobiografica Vita, ov’è viceversa sottolineata la radicale estraneità iniziale dell’Alberti alla lingua toscana, l’originaria sua recisa non conoscenza di quel «patrius sermo» ch’egli avrebbe iniziato a usare, spintovi dallo specifico fine ch’era allora il suo, ma senza realmente possederlo, soltanto nella prima o primissima redazione dei libri de Familia… nel trentesimo suo anno d’età, precisa l’umanista, nel 1433–1434 insomma, e a Roma (Vita, 13).
Sul piano simbolico, assai significativo è del resto lo spesso elettivo «prænomen» dall’Alberti adottato almeno dagli anni Trenta (e al piú tardi nella seconda redazione della Philodoxeos fabula): «Leo», per l’appunto, o «Leone». Non v’è infatti a parer nostro alcun dubbio sul fatto ch’esso rinvii – giusta un’ipotesi condivisa dalla Bertolini e dalla Massalin che trova palese riscontro nella stessa coloritura padano-veneta, e fors’anche veneta tout court, delle poche sue epistole volgari superstiti,10 oltreché nel rilievo dall’umanista concesso nella propria autorappresentazione al motivo delle ali – a Venezia e alla tradizionale raffigurazione in veste, per cosí dire, di «leone alato» dell’evangelista che ne fu il simbolo universale. Peraltro, che agli occhi dell’Alberti «Leo» / «Leone» avesse, in quanto «prænomen», delle non trascurabili virtú intrinseche, e quali fossero tali virtú, è accertabile nel famoso passo del secondo de Familia in cui Lionardo afferma che
ne’ buoni ingegni uno leggiadrissimo nome [è] non minimo stimolo a fare che desiderino aguagliarsi come al nome, cosí ancora alla virtú11
– passo redatto nello stesso torno di tempo in cui quel «prænomen» veniva definitivamente assunto dall’Alberti, che del resto, di contro a quanto si è sostenuto,12 se ne serví non tanto come autore quanto nell’autorappresentazione di se stesso in vesti per cosí dire ufficiali, cioè non semplicemente familiari e informali; e lo prova un significativo luogo dell’autobiografia (Vita, 85–86), ov’egli deliberatamente alterna i due nomi «Baptista» e «Leo» nel pungolare se stesso a produrre.
Sicché (un po’ come per il Petrarca) la sola, l’unica vera patria dell’Alberti sembra situarsi in massima parte fuori dal tempo e dallo spazio in cui concretamente egli vive, avere precipua dimensione storica e culturale, intellettuale e artistica, e ricondursi in un modo o nell’altro alla memoria o alle memorie dell’antico e, nell’antico, alla romanità. Uomo senza vera patria, l’Alberti fu infatti, senz’altro a suo modo ma inequivocabilmente, quel «cittadino del mondo» che il Marsh ritrova nel testamento da lui lasciatoci.13
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Lo stesso studioso individua in una duplice esclusione, della famiglia da Firenze e dell’umanista dalla famiglia (s’intenda in entrambi i casi la famiglia paterna) da un lato e, dall’altro, nel rifiuto della sua opera e delle sue iniziative da parte delle élites intellettuali e politiche fiorentine, le «precarie» fondazioni della personalità dell’Alberti – il cui penchant per l’autobiografia sarebbe all’origine del Leitmotiv ch’entro la sua opera conseguentemente formerebbe il tema dell’esclusione.14
Che quelli indicati dal Marsh siano o possano essere i tre pilastri, per cosí dire, su cui precariamente poggiarono le «fondazioni della personalità» albertiana potrebbe apparire una semplice constatazione se in essa e dietro di essa non riconoscessimo il postulato, invero mai dimostrato, dell’intrinseca «fiorentinità» dell’Alberti, e dunque di un suo legame profondo, insieme biologico e culturale, piú ancora che con la città e il dominio di Firenze, con una stirpe, una tradizione, un patrimonio giuridico, tecnico-artistico e letterario riconoscibili con chiarezza e in pienezza di termini come fiorentini; nel qual caso, giova rilevare, persino in assenza di concreti, materiali interessi, dovremmo ritrovarvi quella sorta di dipendenza ideale, nel contempo psicologica e affettiva, in cui siffatto legame di norma si traduce.
Ritengo che uno spassionato esame dei dati reali in nostro possesso induca a dubitare fortemente della validità e del fondamento stesso di tale postulato. Che in gran parte crederei peraltro riconducibile a un’assai tarda riscrittura e invero mistificazione storiografica d’origine fiorentina compiutasi, benché con taluni estemporanei e disorganici accenni precedenti, che un primo e cosciente intento traducono soltanto negli anni di Lorenzo, in Età ducale e granducale, regnante Cosimo I de’ Medici (1519–1574, duca di Firenze dal ’37 e granduca di Toscana dal ’69), col Vasari e col Bartoli innanzitutto – l’uno e l’altro dei quali pur reca vistose, inequivocabili tracce dell’autentico ostracismo riservato all’opera e al nome stesso dell’Alberti nella Firenze a lui contemporanea, e in quella anche delle generazioni immediatamente successive: basti qui accennare all’accusa di pratica incapacità lanciata dal Vasari al tanto di lui piú grande architetto e umanista, e all’esclusione, fra le altre non pochissime opere, dell’intera serie dei dialoghi volgari mimetici dalla silloge degli scritti dell’Alberti edita dal Bartoli con l’incongruo titolo d’Opuscoli morali.
Invero, mai l’Alberti si dice «Florentinus» o «fiorentino», né «fiorentino» o «Florentinus» lo dicono i codici manoscritti, non almeno quelli al suo laboratorio o a lui direttamente legati, né quelli