IL SANTO DEI MIRACOLI
Ammetto che in quel periodo il mio umore non poteva certo dirsi buono. Per problemi alle ossa la mamma di Debora, la mia compagna, era costretta tra il letto e la sedia a rotelle già da parecchio tempo, e le previsioni degli specialisti non lasciavano sperare grandi miglioramenti. Debora ovviamente ne subiva le conseguenze, ed in parte anch’io. Nei momenti liberi eravamo sempre da sua madre. Mai un’occasione di svago, di distrazione; non so quanto tempo ormai che non andavamo al cinema, o che la domenica non si faceva una gita.
Un giorno Debora mi annunciò che aveva programmato per noi una uscita domenicale. Ne fui contento, ma solo finché non mi specificò che sarebbe stata una specie di pellegrinaggio: una visita alla Basilica del Santo a cui sua madre era molto devota. La malattia della madre aveva risvegliato in Debora quel poco di religiosità e bigotteria che, acquisite nell’infanzia, giacevano in lei sopite da anni. Conoscendo il mio ateismo e scetticismo, non mi aveva mai proposto niente di simile. Ero molto preoccupato: ma lo fui ancora di più quando, accennando alla possibilità di non andarci, mi disse senza esitazione che sarebbe andata ugualmente, da sola. Così decisi di accompagnarla.
Il viaggio in autobus lo trovai pessimo. Andammo con una parrocchia (sinceramente non so dire quale né che agganci ci avesse, ma credo nessuno), un gruppo di scalmanati che, chissà mai cosa avevano da essere allegri, giocavano, cantavano e schiamazzavano in continuazione. Ogni tanto qualcuno, vedendoci appartati ed apparentemente seri, cercava inutilmente di coinvolgerci; ma era chiaro che non avevano nessun rispetto per chi la pensava diversamente da loro, e anzi non ritenevano neanche possibile che qualcuno potesse avere convinzioni differenti dalle loro in materia religiosa. Finché venne da noi un sacerdote, credo, dicendoci che non ci aveva mai visto e chiedendoci di noi. Debora gli spiegò la situazione di sua madre e lui, molto raccolto e compunto, rispose che ci comprendeva. (Ma non capiva certamente me!) Comunque gli fui grato perché almeno, dopo quella visita, nessuno più ci disturbò né tentò di coinvolgerci.
Arrivati alla Basilica, pioveva. Io non volli entrare ed aspettai fuori il ritorno di Debora e degli altri, sotto una specie di tettoia in compagnia di altri turisti sconosciuti. Fu lì che mi imbattei in uno squinternato dal buffo cappello rosso e verde che, seppi in seguito, era un po’ lo scemo del paese ed era conosciuto da tutti con il nome o soprannome di Giovenale. O meglio, fu lui che scelse di battibeccare con me. Lo stavo già osservando perché, incurante della pioggia che continuava a cadere insistente e gesticolando come se parlasse con qualcuno, descriveva sul sagrato degli strani giri senza logica. Poi ad un tratto, come se avesse finalmente trovato un senso al suo zigzagare, venne da me e, quasi a continuare un discorso che in realtà non era mai iniziato:
“… perché il Santo che abbiamo noi non è soltanto il nostro Patrono, un santo come tanti altri. Lui è davvero potente. Quando ci si mette può fare qualunque cosa. Parlo dei miracoli, sì: di quelli veri. Se sei venuto a chiedere una grazia, facile che lui te la conceda anche a costo di fare un miracolo.”
Io ascoltavo senza mostrare di dargli troppa attenzione, e resistetti bene alla tentazione di fare qualche commento sarcastico. Ma quello proseguì:
“Però devi almeno accendergli un cero, dargli una monetina. Sennò il miracolo magari non arriva.”
A questo punto non riuscii a trattenere il mio anticlericalismo e commentai, seppure a voce bassa e quasi tra me:
“Sì, lo so che i soldi fanno miracoli. Con quelli si può tutto, checché ne dicano alcuni. Pensa un po’: i soldi e la credulità della gente fanno in modo che questo mercato di superstizione prosperi da secoli, insieme a tutti i preti che ci mangiano sopra…”
Giovenale dovette aver sentito, e parve così irritato da queste parole che io, quasi spaventato, mi interruppi. La pioggia continuava a cadere su di lui più forte che mai, e mi parve che in cielo, come se fosse anch’esso adirato, si scatenasse un fulmine spaventoso.
“Tu non ti rendi conto di quello che dici. Spero per te che un giorno il Santo ti apra gli occhi e ti faccia capire la verità.”
Dicendo queste parole aveva uno sguardo profondo, pungente, quasi spiritato: molto diverso dall’espressione ebete di poco prima. Mi si era avvicinato minaccioso, a tal punto che temetti per la mia incolumità. Per fortuna, con mio grande sollievo, si ritrasse quasi subito riprendendo, come se niente fosse successo, il suo zigzagare distratto e senza senso sul sagrato della chiesa.
Poco dopo Debora ritornò insieme al resto della comitiva.
“Hai una monetina da darmi, per fare un'offerta alla reliquia del Santo?”, mi chiese. Era zuppa per la pioggia, nonostante l’ombrello.
Sicuro di averla, senza esitazione feci per aprire il mio marsupio da viaggio alla ricerca di una moneta. Ma mentre aprivo la zip mi fermai: all’improvviso si era aperto uno squarcio tra le nuvole, e si era allargato così tanto e così in fretta da lasciarci tutti a bocca aperta. In un attimo aveva smesso di piovere, e la luminosità dell’aria e dell’atmosfera erano cambiate in modo che sembrava di essere passati dalla notte al giorno. Stavamo assistendo a qualcosa di straordinario; ma rimasi ancora più stupito quando, aperto il marsupio, mi resi conto che non c’erano più le cose di valore che dovevano esserci, e cioè le chiavi, il telefonino, il portafoglio e il portamonete. Al loro posto, invece, un ramoscello di fiorellini bianchi e rosa. Sbiancai.
“I miei soldi! I miei documenti! È sparito tutto!”
Se non fosse capitato a me, forse sarei stato contento che quella noiosa gita venisse un po’ movimentata. Intorno a me tutti a cercare, a chiedere, a fare congetture; ed io, che fino allora mi ero sforzato di mantenere il più possibile le distanze da quel gruppo di persone che mi stavano antipatiche, fui costretto a svelare a tutti cosa conteneva il mio marsupio, dove l’avevo portato e quando l’avevo aperto l’ultima volta.
Alla fine andai con Debora alla più vicina stazione dei carabinieri per sporgere denuncia. Ci accompagnò un ragazzo del gruppo, particolarmente premuroso, secondo Debora, o invadente, secondo me.
La giornata per me procedeva di male in peggio: prima il brutto tempo e i bigotti della parrocchia, poi il prete, il matto, il furto e adesso anche i carabinieri.
Beh, avrete capito che neanche le forze dell’ordine mi stanno gran che simpatiche: meglio i carabinieri che la polizia, almeno ci sono tante barzellette su di loro che ci tengono di buon umore. Non che quello che incontrai quel giorno fosse peggio degli altri: devo dire anzi cortese e rispettoso, povero diavolo. Ma ebbe una reazione per me sconcertante quando, dopo che ebbi raccontato e fatto verbalizzare tutto, aggiunsi che avevo dei sospetti su chi poteva avermi derubato e riferii che secondo me era stato un tipo strano con in testa un cappello rosso e verde.
“Uno col cappello rosso e verde? Giovenale?”, e rendendosi conto che non potevo conoscerne il nome, mi fece vedere una sua fotografia. Sì, era lui.
“Vede… questo ragazzo, povero disgraziato, non ha mai fatto male a una mosca. È un po’ il portafortuna del paese, una specie di attrazione turistica. E a parte la nomea di possedere poteri paranormali, per cui comunque nessuno si metterebbe mai contro di lui, è molto amato dalla gente”. Dopo una pausa di riflessione, aggiunse: “Ma su quali elementi, precisamente, basa i suoi sospetti su di lui?”
“Mi ha aggredito verbalmente. A tal punto che ho temuto seriamente che volesse alzare le mani su di me.”
“Qualcun altro ha assistito a questa scena, e può confermarlo?”
No, non potevo portare