«Quale frontiera può resistere con la sabbia e il vento?»
Girò il viso verso la notte e cercò di capire, ma non vi riuscì. Quegli uomini non erano criminali, ma uno era già stato sotterrato e l’altro se lo erano portato via, nessuno sa dove. Non si poteva uccidere nessuno tanto freddamente, per quanto grande fosse il suo delitto.
E ancor meno quando dormiva sotto la protezione e il tetto di un inmouchar.
C’era qualcosa di strano in quella storia, ma lui non riusciva a capire che cosa; solo un fatto era chiaro: la più antica legge del deserto era stata infranta e questo era qualcosa che un imohag non poteva accettare.
Si ricordò della vecchia Khaltoum e una mano gelata, la paura, gli si posò sulla nuca. Poi abbassò lo sguardo sugli occhi aperti di Laila che brillavano insonni nella penombra riflettendo l’ultima brace del focolare e sentì pena per lei; per i suoi quindici anni mal compiuti e il vuoto delle sue notti quando lui sarebbe partito. E sentì pena anche per se stesso per il vuoto che avrebbe riempito le sue notti quando lei non sarebbe stata al suo fianco.
Le accarezzò i capelli e lei gradì il gesto come un animale, aprendo ancor più i suoi grandi occhi di gazzella impaurita.
«Quando tornerai?» mormorò, più come supplica che come domanda.
Negò con la testa. «Non lo so», ammise. «Quando avrò fatto giustizia.»
«Che cosa significavano quegli uomini per te?»
«Niente», confessò. «Niente fino a ieri. Ma non si tratta di loro. Si tratta di me stesso. Tu non puoi capire.»
Laila capiva, ma non protestò. Si limitò ad accostarsi ancora di più a lui, come in cerca della sua forza o del suo calore, e allungò le mani neirultimo tentativo di trattenerlo quando lui si mise in piedi e s’incamminò verso l’uscita.
Fuori il vento continuava a piangere sommessamente. Faceva freddo e si avvolse nel suo jaique mentre un brivido inarrestabile gli scendeva lungo la schiena, non seppe mai se per il freddo o per lo spaventoso vuoto della notte che si apriva davanti a lui. Era come immergersi in un mare tinto di nero. In quel momento Suflem uscì dall’oscurità e gli tese le redini di R’Orab.
«Buona fortuna, padrone», disse, poi scomparve come se non fosse esistito.
Gacel obbligò l’animale a inginocchiarsi, salì sulla groppa e con il tallone lo colpì piano sul collo.
«Shiaaaaa!» ordinò. «Andiamo.»
L’animale lanciò un grido di cattivo umore, si alzò pesantemente e rimase ben saldo sulle sue quattro zampe, muso al vento, aspettando.
Il targuf lo orientò verso nordovest e conficcò di nuovo il tallone con più impeto perché cominciasse la marcia.
All’entrata della jaima si stagliò un’ombra più densa delle altre, più scura. Gli occhi di Laila brillarono nuovamente nella notte mentre cavaliere e cavalcatura scomparivano come spinti dal vento e dai cespugli.
Il vento spirava sempre più forte, sapendo che presto la luce del sole sarebbe venuta a calmarlo.
Non era ancora giorno e non c’era neanche quella penombra lattiginosa che permetteva di distinguere appena la testa del cammello, ma Gacel non aveva bisogno di nulla. Sapeva che non esisteva alcun ostacolo per centinaia di chilometri intorno a lui e il suo istinto di uomo del deserto, la sua capacità di orientarsi, perfino con gli occhi chiusi, gli indicavano la direzione anche nella notte più profonda.
Quella era una virtù che solo lui e quelli che, come lui, erano nati e cresciuti nel deserto possedevano. Come i piccioni viaggiatori, come gli uccelli migratori, come le balene nel più profondo degli oceani, il targui sapeva sempre dove si trovava e dove si stava dirigendo, come se un antichissimo senso, atrofizzato nel resto degli esseri umani, si fosse mantenuto attivo ed efficiente unicamente in loro.
Nord, sud, est e ovest; pozzi, oasi, strade, montagne, terre vuote, fiumi di dune, pianure rocciose... tutto l’universo delle immensità sahariane sembrava riflettersi come un’eco nel fondo del cervello di Gacel, senza che lui lo sapesse, senza che ne prendesse piena coscienza.
Il sole lo sorprese sul dorso del suo mehari e andò alzandosi sulla sua testa, sempre più forte, facendo tacere il vento, schiacciando la terra, calmando la sabbia e i cespugli che non correvano più da una parte all’altra, tirando fuori dalle loro tane i ramarri e lasciando a terra gli uccelli che non si arrischiavano neanche a volare quando arrivò infine al suo zenit.
Il targui scese allora dalla sua cavalcatura, obbligò l’animale a inginocchiarsi e infilzò nella terra la lunga sciabola e il vecchio fucile che servirono da supporto, assieme alla croce della sella, per un rozzo e piccolo tetto di grossa tela. Si rifugiò sotto la sua ombra, appoggiò la testa sulla bianca schiena del mehari e si addormentò.
Lo svegliò, palpitando nelle narici, il più desiderato degli odori del deserto. Aprì gli occhi e rimase immobi
le, aspirando l’aria, senza voler guardare verso il cielo, timoroso che tutto fosse un sogno, ma quando alla fine girò la testa verso ovest, la vide. Copriva l’orizzonte, grande, scura, promettitrice e piena di vita, diversa da quelle bianche, alte e come mendicanti che di tanto in tanto giungevano dal Nord per perdersi di vista senza portare la più vana speranza di pioggia.
Quella nuvola grigia, bassa e splendente, sembrava occultare nel suo seno tutti i tesori di acqua dell’universo ed era, probabilmente, la più bella che Gacel fosse riuscito a vedere negli ultimi quindici anni, forse dalla grande tempesta che precedette la nascita di Laila, quella che aveva indotto la vecchia Khaltoum a predire un tetro futuro perché l’acqua desiderata si era trasformata in alluvione che aveva trascinato jaimas e a nimali, aveva distrutto coltivazioni e affogato una cammella.
R’Orab si agitò inquieto. Girò il suo lungo collo e orientò il muso ansioso verso la cortina di acqua che avanzava alterando la luce e trasformando il paesaggio, poi emise sommessamente un suono rauco di enorme gatto soddisfatto. Gacel si alzò lentamente in piedi, gli tolse i finimenti e si spogliò dei vestiti che stese ordinatamente su cespugli perché ricevessero tutta l’acqua possibile. Poi, nudo, aspettò in piedi che le prime gocce cadessero sulla sabbia e sulla terra coprendo di cicatrici il volto del deserto e che arrivasse l’acqua in ondate, inebriato nell’ascoltare il dolce ticchettio che si trasformava in frastuono, sentendo sulla pelle la tiepida carezza della pioggia, gustandone la freschezza limpida e chiara e aspirando l’agognato profumo della terra bagnata dalla quale si alzava un vapore denso e conturbante.
Era finalmente l’unione meravigliosa e feconda e, presto, con il sole di quello stesso giorno, l’addormentar to seme dzWacheb si sarebbe svegliato violentemente, avrebbe coperto la pianura di verde e avrebbe trasformato l’arido paesaggio nella più bella delle regioni, fiorendo solo per qualche giorno per immergersi poi in un nuovo e lungo sonno fino alla prossima tempesta che forse avrebbe tardato altri quindici anni.
Era bello Yalheb libero e selvaggio, incapace di nascere in terra coltivata, né vicino a un pozzo, né sotto la mano attenta del contadino che lo irrigava giorno dopo giorno; l’unico capace di rimanere, come lo spirito del popolo dei tuareg, secolo dopo secolo attaccato a una distesa di sabbia o a una pietraia che il resto degli uomini aveva abbandonato da sempre.
L’acqua bagnò i suoi capelli e sciolse dal suo corpo la sporcizia di mesi e forse di anni. Si sfregò con le unghie, cercò una pietra piatta e porosa con la quale si strofinò, vedendo come si andavano delineando sulla sua pelle macchie sempre più chiare a mano a mano che la crosta di terra, di sudore e di polvere si staccava e l’acqua correva azzurra, quasi indaco, verso i suoi piedi, poiché il rozzo colore dei suoi vestiti aveva impregnato col tempo ogni centimetro del suo corpo.
Per due lunghe ore rimase sotto la pioggia, felice e tremante, lottando con se stesso per non ritornare a casa, utilizzare l’acqua, piantare l’orzo, aspettare la mietitura e sfruttare, insieme con i suoi, quel dono meraviglioso che Allah aveva voluto mandargli, forse un invito a