Una volta finita la paura, presi Emily da parte. “Hai visto Nick?” le chiesi.
Emily sospirò. “Se n’è andato. Ho sentito che diceva a Gino di avere un’emergenza familiare.”
Un fiasco.
La giornata voltò al termine. Non mi ricordo molto. Penso di aver fatto espressioni e commenti opportuni quando richiesto. O forse no. La lavatrice che avevo al posto del cervello stava centrifugando pensieri su Nick.
Ad una certa ora del pomeriggio, Emily mi riaccompagnò a casa sulla mia vecchia Honda Accord metallizzata. Il giorno si trasformò in notte, e la notte di nuovo in giorno, e quando mi svegliai il giorno seguente al sentire la voce di mio fratello, mi ritrovai stravaccata sul divano del soggiorno.
Quattro
Appartamento di Katie, Dallas, Texas
16 agosto 2012
“Hai una buona scusa per non aver riposto a nessuna delle mie chiamate?” disse Collin in un austero tono da fratello maggiore. Mi sforzai di aprire gli occhi abbastanza da vederlo gesticolare per il soggiorno del mio – una volta – bellissimo appartamento. Collin era come un gemello, più grande di me di undici mesi. Avevamo finito le superiori insieme, però, dato che nostro padre, un vero texano, aveva insistito che Collin aspettasse un anno per avere un vantaggio fisico nella squadra di football. Perciò non solo eravamo identici, ma anche compagni di classe. Eppure, Collin ha sempre avuto uno spirito paterno nei miei confronti, specialmente nell’ultimo anno, dopo aver perso mamma e papà.
Aprii leggermente gli occhi, abbastanza da vedere il casino che avevo lasciato. Non doveva avere un bell’aspetto. Normalmente sono inverosimilmente maniacale per quanto riguarda la pulizia. Collin ha sempre sostenuto che avessi un disturbo ossessivo-compulsivo, ma io non ero d’accordo. Passo l’aspirapolvere al contrario perché non mi piacciono le impronte sulla moquette. Organizzo i miei vestiti per stagione e li suddivido per scopo e colore, chi non lo fa? E anche se non tutti pettinano le frange dei cuscini come me, credo che dovrebbero faro. Frange aggrovigliate. Che orrore. Queste ultime settimane, però? Beh, non così tanto.
C’erano — oh — involucri di cibo pronto sul tavolo della cucina e un paio di bottiglie di Grey Goose vuote sul piano di lavoro. Per gli standard di Dennis la Minaccia, non era così antigenico, ma se mi conosceste come mi conosce mio fratello, vi preoccupereste. Avevo dormito con gli abiti da lavoro di ieri e i vestiti dei giorni precedenti erano in una pila che non avevo ancora portato in lavanderia, a lato del sofà — lo stesso sofà sul quale il cuscino dalle frange aggrovigliate mi stava innervosendo, con i suoi nodi e le sue trecce. Sulla televisione passava Runaway di Bon Jovi da un canale di musica anni ‘80. Un quasi prosciugato Bloody Mary si prendeva gioco di me dal tavolino da caffè, dove sedeva vicino al mio portatile Vaio, una bottiglia di Excedrin e il mio iPhone.
Mi misi a sedere nel modo più decoroso possibile e stiracchiai i vestiti. “Perché non ho sentito l’allarme quando sei entrato?” gli chiesi. Collin aveva una copia delle chiavi del mio appartamento, ma l’allarme avrebbe dovuto suonare quando aveva aperto la porta.
Senza mezzi termini, Collin disse, “Devi essere stata troppo ubriaca per ricordarti di impostarlo. O forse c’era un ospite che se n’è andato tardi?”
Si guardò intorno cercando un secondo bicchiere, ma avevo bevuto da sola. Collin iniziò a mettere a posto il casino.
“Collin, ci penso io,” dissi.
“No. Vai a darti una rinfrescata,” disse. “Ti porto a fare colazione. È un ordine.”
Lo guardai con i miei occhi tristi. Indossava i soliti jeans 501 con una maglietta della Hooters, e sprizzava la frase Io non ho problemi da tutti i pori. Non volevo fare colazione con lui. Volevo mettermi in posizione fetale. Volevo dormire e stare da sola. Volevo stare così ferma da non esistere più.
Mi guardò mentre rimanevo immobile sul divano e qualcosa gli fece mettere giù la mia roba e venire lì da me. Prendendomi la mano, mi mise in piedi. Trattenne il mio corpo rigido in un abbraccio da orso, dondolandomi piano per qualche secondo. Oh oh. In un primo momento, provai a trattenermi, ma poi mi ripiegai su di lui e iniziai a singhiozzargli sulla spalla. Dal singhiozzare passai a tirare su col naso, poi iniziarono i gemini e dopo i vennero i respiri irregolari. Mi inclinò la testa all’indietro mettendo il pollice sotto al mio mento e mi guardò negli occhi, scrutandomi.
“Vai a farti una doccia calda. Mangiamo in posto tranquillo, ma esco — con te in macchina — tra venti minuti.” Mi diede una pacca sulla spalla. “Hop hop. Sai che se devo ti vengo a prendere nella doccia. Non costringermi a farlo.”
Con una spinta leggera, mi spedì in fondo al corridoio, al bagno, da dove lo sentii mentre ricominciava a mettere a posto. Le lacrime mi scorrevano sul naso e sulle guance. Cavoli, avrei dovuto bere litri e litri d’acqua a colazione; visto il ritmo del mio pianto e la quantità di vodka che avevo bevuto la sera prima, ero ad un passo da un violento mal di testa per disidratazione.
Quarantacinque minuti dopo, ci sedevamo all’IHOP di Mockingbird Lane. Da sempre uno dei nostri posti preferiti da bambini, oggi notai che aveva molte rifiniture arancioni nell’arredamento, e per questo iniziò a piacermi meno. Collin mi sorprese quando chiese un tavolo per tre, ma non avevo le energie per fare domande. Capii solo quando vidi i capelli da sfilata di Emily all’entrata. Camminò verso di noi nei suoi pantaloni plissettati blu notte e la sua camicetta in seta gialla, stretta alla vita da una cintura in pelle che si abbinava ai tacchi marroni.
“Ciao, Katie.” Mi guardò per un secondo, poi distolse lo sguardo.
Alzai la mano in segno di saluto. Ottimo. Un’altra persona a vedermi in questo stato. Avevo evitato di fermarmi davanti allo specchio a casa, ma la rapida occhiata che avevo dato mi era bastata. Una coda di cavallo bagnata. Dei vecchi pantaloni della tuta e una maglietta. Occhi gonfi e giallastri. Bleah.
Evitammo di parlare, guardando ognuno il proprio menù, fino a che la cameriera di mezza età, che avrebbe dovuto indossare un’uniforme di una taglia in più, non venne a prendere l’ordine. I muscoli dello stomaco mi si strinsero mentre se ne andava. Quasi la richiamai indietro per farle togliere il succo d’arancia dal mio ordine, ma non lo feci. Perché ritardare l’inevitabile. Collin ci aveva riunito per un motivo e, per quanto spiacevole, la cosa stava per venire fuori.
“Emily ed io abbiamo parlato, e mi ha raccontato cosa ti sta succedendo,” Collin.
Speravo che Emily avesse omesso alcuni dettagli, ma non potevo incolparla per avere la mia salute a cuore. O per aver spettegolato con Collin. Era un poliziotto, aveva seguito la scia di nostro padre, e c’era testimone che non riuscisse a far crollare, gli piaceva dire.
Collin continuò a parlare. “Siamo preoccupati per te. Sei nei casini. Ti stai facendo del male.”
Volse lo sguardo ad Emily in cerca di una conferma e lei abbassò lo sguardo verso il copritavolo in formica. Conoscendo Collin, l’aveva trascinata in questa piccola sessione di terapia e, conoscendo Em, era venuta a malincuore. Emily era spigliata, ma dare ordini non era il suo stile.
Non avevo le forze di contrariare Collin e, sinceramente, non ero neanche in disaccordo con lui. Ero un disastro in questo momento, senza dubbio. Mi aveva presa in uno di quei rari momenti in cui la parte di me senza peli sulla lingua non era lì a difendere la parte più fragile. Probabilmente era ancora stravaccata sul divano a riprendersi dalla sbornia.
“Hai ragione,” ammisi. Queste parole erano come polvere sulla mia lingua secca. “Devo rimettermi in sesto.”
“Penso tu debba andare in un centro di disintossicazione.” Le parole di Collin erano forti, anche perché non c’è un modo per addolcire l’espressione “centro di disintossicazione”.
Quindi era così che si era sentita Amy Winehouse. E adesso era morta. Questo mi diede da pensare. Però io non ero Amy Winehouse.
“Sto