Mangia e bevi, eravamo stati fuori solo a metà pomeriggio. Davanti a noi era appena sortita la famiglia dei condòmini dell’amico e s’era avviata, una quindicina di metri avanti, nella nostra stessa direzione verso via Cernaia. Stavano discutendo tutti assieme, senza cautela, suppongo essendone complici profonde libagioni prandiali. Le loro parole ci arrivavano confusamente, ma dopo non molto s’era alzata alta e chiara la voce della donna anziana che, inalberando una mùtria malmoltosa, come non si poteva evitare di vedere nonostante metri di distanza, aveva detto bruscamente: “Basta adesso! Anche a Natale?! La volete smettere di fare i caini?”
Evidentemente, ce l’aveva coi figli.
Vittorio m’aveva sussurrato di rallentare e lasciarli allontanare. Poiché il gruppo marciava lentamente e continuava a restarci a portata di voce, dopo qualche passo m’aveva fatto segno col pollice destro di svoltare da quella parte nella prossima via Boucheron. Ne avrei compreso presto la ragione: gli era venuto l’uzzo di parlarmi di quella famiglia, forse essendo anche per lui complici l’aperitivo, il vino e lo spumante; malgrado ciò, era sì allegro ma sempre lucido, infatti non aveva voluto che i suoi chiacchierandi vicini sentissero.
Aveva esordito: “Tanto per far conversazione mentre camminiamo… oh, ti va di fare due passi per digerire, no?”
“Certamente.”
“Solito giro dei portici?”
“Perfetto.”
“Bene. Dunque volevo dirti qualcosa di quelle persone… ecco, adesso giriamo qui a sinistra, così arriviamo egualmente in via Cernaia, l’attraversiamo e imbocchiamo direttamente corso Vinzaglio.”
Avevamo svoltato in via Manzoni.
“Ti stavo dicendo di quella famiglia: Ha un grosso negozio dove lavorano tutti a parte la nuora, con diversi commessi. Vendono lavatrici, frigoriferi, televisori, registratori, giradischi e dischi: gli ho comprato anch’io un paio di 33 giri, l’altro mese.”
“Jazz?”
“No, che jazz e jazz: a te piace il jazz?”
“Eh, molto!”
“Va bbuo’ a me invece piace la musica sinfonica e operistica: no, era Mozart. Comunque, stavo per dirti che il negozio è quasi sempre pieno di gente, i Trastulli stanno godendosi il boom economico15 . Hanno sei vetrine e due piani d’esposizione e vendita, qui vicino, in via Garibaldi, sotto i portici quasi in piazza Statuto. Ditta molto vecchia, anche se in passato non vendevano ovviamente televisori e registratori, perché non c’erano. Penso trattassero soprattutto cose come grammofoni a molla e apparecchi radio. Comunque era una ditta conosciuta e florida da anni già prima del boom: l’avevano aperta nel 1930 i due vecchi poco dopo il matrimonio, con un capitale che lui aveva ereditato dal padre appena defunto. L’anno di fondazione del negozio è scritto dappertutto, dentro i locali e sulle vetrine. L’insegna che corre su queste riporta il cognome di famiglia: Trastulli seguito da Televisori Elettrodomestici Apparecchiature Musica.” Il vecchio è diplomato geometra…”
“...lo so, l’avevi chiamato così salutandolo.”
“Già. È il geometra Aristide Trastulli. Prima d’ereditare lavorava come dipendente in un’impresa edile, e aveva conosciuto la futura moglie, Iride, un giorno che per lavoro era salito a casa del principale: lei era la donna di servizio. Il loro primogenito si chiama Arturo, non ha avuto molta voglia di studiare, ha la terza media, o meglio la terza ginnasio come si chiamava una volta16 , è andato a lavorare coi suoi a quattordici anni. Il secondo figlio, Clemente, ha maggiori studi, prese il diploma di perito mercantile prima d’entrare in ditta coi genitori. Tornando alla loro madre signora Iride, è la decima figlia di contadini. Come tutti nella sua famiglia aveva studiato poco, anche se si esprime con proprietà. Subito dopo l’esame di terza elementare17 aveva dovuto aiutare i suoi nel lavoro, come già facevano i fratelli e una delle sorelle; raggiunti i quattordici anni, com’era stato per le altre sorelle, era stata inurbata dai genitori e indirizzata al mestiere di domestica, essendoci troppe bocche da sfamare per il piccolo appezzamento di terra familiare. Sono tutte cose che ho saputo nel corso del tempo dall’ostiario, come io lo definisco.
“Ostiario?”
“Non sai chi erano gli ostiari?”
“Hm… mea culpa”, avevo finto di dolermene.
“Perdonato”, aveva scherzato anche lui, “dopotutto la reale figura dell’ostiario non esiste più da un pezzo, sostituita da quella del sacrestano. Si trattava d’un chierico,