“ E' per te soltanto che io cantavo,
è per te soltanto che io studiavo,
è per te soltanto che io morivo,
solo per teeeeeee ...”
A me personalmente la banda di Lorenzo era sempre stata piuttosto indifferente, un gruppo come tanti anche se dovevo riconoscere che qualche loro canzone era carina; ma da quando avevo conosciuto Clara, prima solo per solidarietà con lei ma un po' alla volta anche per mia vera convinzione, avevo cominciato ad apprezzarli anch'io.
“ E' per te soltanto che io ballavo,
è per te soltanto che io lottavo,
è per te soltanto che io fumavo,
solo per teeeeeee ...”
Nei pezzi più famosi si univa al coro anche la sorella, che ogni tanto usciva dalla stanza di Clara lasciandoci soli e dopo un po' rientrava; a volte anche lei lasciava i suoi commenti, in sottofondo, ma in modo che potessi sentirli anche io. Questo e quanto altro accadeva a casa di Clara provocava di tanto in tanto delle piccole interruzioni, dei piccoli disturbi a quella performance canora, ma io continuavo comunque a rimanere in ascolto. Tanto che il mio orecchio destro, dal lungo contatto con la cornetta del telefono, si era surriscaldato, ed io dovetti passare all'altra orecchia.
A un certo punto però:
“Scusami Aristide, ma mio padre ha necessità di fare una telefonata. Ti devo lasciare.”
“Va bene Clara, ma mi prometti che appena finisce mi richiami e torniamo insieme al concerto?”
“Si, va bene”.
Aspettai a lungo seduto in poltrona accanto al telefono, in attesa che squillasse. Solo poche volte cedetti alla tentazione di provare a richiamarla io, dovesse essersi dimenticata della sua promessa.
L'ultima di queste volte fui anticipato di un soffio dal trillo del telefono, forse la prima volta in assoluto che lei mi chiamava.
“Scusa se ci ho messo un po', non riuscivo a trovare il tuo numero”, si giustificò lei. E poi riprese a cantare dietro la TV.
Ci lasciammo alla fine della trasmissione.
“Mi dispiace davvero che per la mia salute tu non sia potuto andare al concerto, e hai anche speso i soldi dei biglietti. Appena ci vediamo ti darò la mia parte.”
“Ma figurati. Non ti ci provare nemmeno. E poi è stato comunque un gran bel concerto, proprio una bella serata”, le dissi con convinzione.
NULLA SFUGGE ALLA MAMMA
(Marco e Sara dentro a un cuore)
Marco e Sara erano ormai diversi anni che si frequentavano, da quando avevano iniziato l'Università.
Per lui la scintilla era scoccata fin dalla prima volta che l'aveva incontrata, al termine della prima lezione nella grande aula piena di ragazzi ancora sconosciuti. Lei parlava, anzi cinguettava, come un ruscello in piena, con attorno a sé un piccolo capannello a cui lui si era aggiunto subito volentieri e quasi per necessità, attratto da una forza misteriosa. Forse era la bellezza dei suoi occhi - uno dei quali molto particolare, con l'iride bicolore - e del suo sorriso sincero; o forse il dolce timbro della sua voce, da bambina, così come a una scolaretta al suo primo giorno di scuola faceva pensare tutto quello che diceva.
“E' lei”, pensò subito Marco; ma forse invece di pensarlo lo sentì da una vocina che era dentro di sé , o forse fuori. La voce dell'universo che solo in vista di quell'istante aveva predisposto tutte le sue meraviglie e atteso interminabili secoli di storia: affinché loro due si incontrassero e nascesse l'Amore.
A poco a poco il capannello si sciolse, e lui rimase da solo ad ascoltarla; e da allora le loro anime non si sono mai più lasciate [1].
Erano passati ormai alcuni anni da quel primo incontro. Si erano prima frequentati assiduamente all'Università, condividendo lezioni, ripassi, pause pranzo e amicizie. Lui cercava e trovava ogni occasione per avere la sua compagnia, sempre ben accetta; l'aiutava e l'accompagnava nello studio e in qualunque altra cosa potesse servirle. La voce di lei si udiva spesso risuonare allegra nei corridoi (e, a volte in modo imbarazzante, anche nelle sale di lettura e nelle biblioteche); e quando la sentivi potevi stare sicuro che, insieme a lei e magari ad altri amici o amiche, avresti trovato anche lui.
Erano insomma una bella coppia, come altre - poche altre - nella loro facoltà. Non dichiarata ma solida e di fatto. E anche se per entrambi, e soprattutto per lei, non mancavano altri corteggiatori, era evidente che il loro casto, fraterno legame era qualcosa di difficile da incontrare, da raggiungere o da ostacolare, con cui era impossibile competere o interferire. Un piccolo miracolo, un capolavoro; il riflesso abbagliante dell'armonia dell'universo nell'uomo e nella donna; l'Amore.
Poi lui cominciò a riaccompagnarla a casa - una villetta sperduta sulle colline dove nessuno avrebbe potuto capitare per caso - e fece conoscenza con la famiglia di lei, che lo accolse come se fosse il loro quarto figlio. Le sue intenzioni e le loro prospettive erano talmente evidenti che non ci fu mai bisogno di dichiararle.
Sara era un libro aperto per tutti, figuriamoci per la sua famiglia. Lo era anche per Marco, che sin dal primo momento aveva saputo, grazie alla sincerità di lei, leggerle negli sguardi, nei gesti e nelle intonazioni; e attraverso questi riuscire a comprendere i suoi pensieri e i suoi sentimenti, che trovava bellissimi. La sua anima pura e innocente di fanciulla sembrava uscita da una fiaba di Walt Disney.
Col tempo allo studio si aggiunse e subentrò il tempo libero, ed ogni sabato pomeriggio Marco, a bordo della sua piccola carrozza meccanizzata, saliva a prendere la sua principessa [2] per portarsela in città o in giro per il Lazio, il loro piccolo regno. Musei, teatri, giardini o semplici passeggiate. A cui poi si aggiunse la cenetta al ristorante, sempre in un posto diverso, sempre romantica.
Tutto andava bene e tutto era bello, perché in qualsiasi posto era come se fossero sempre e comunque al posto giusto. Semplicemente perché insieme erano felici.
Non saprei dire quando o perché - così come non saprei dire quando la prima volta senza pensarci si erano presi per mano - arrivò il primo bacio.
Lui l'aveva riaccompagnata a casa al termine di una di quelle innumerevoli serate. Come sempre lasciarsi era difficile, avevano ancora tante cose da dirsi e indugiavano, là sotto agli olivi davanti al cancello di casa sua, dentro quella macchinina che era proprio giusta per loro, come un nido.
La serata era fredda e umida, e i vetri si erano subito appannati.
“Posso darti un bacio?”, chiese lui a un tratto cambiando argomento.
Il candido viso di lei, in gran parte coperto dalla sua lunghissima sciarpa multicolore, arrossì leggermente. Rispose affermativamente più col sorriso e con gli occhi, che con un cenno del capo e con le parole.
Fu un bacio tutto sommato casto, che lasciò loro in bocca un sapore inatteso e insolito come una pietanza mai assaggiata. Un bacio come milioni di altri che vengono scambiati ogni giorno su questa terra, si potrebbe dire; una normale tappa della crescita, come la nascita del primo dentino. Ma per loro fu qualcosa di molto di più: fu il primo bacio della loro vita. E, ciascuno lo sapeva, era il primo sia per l'uno che per l'altra.
“Ce ne hai messo di tempo. Mi chiedevo