Due giorni dopo riprendemmo la marcia. I primi giorni viaggiavo a dorso di mulo, cercando di non essere un peso per il resto del gruppo. Mi sentivo esausta.
Un pomeriggio finalmente avvistammo le aspre montagne all'orizzonte, ci lasciammo alle spalle le ultime vestigia della foresta amazzonica ed entrammo nell'Altopiano. Dovemmo attraversare alte montagne con profonde vallate dove la vegetazione cresceva con difficoltà.
Il percorso era segnato da piccoli villaggi dove la maggior parte della popolazione era impegnata nelle miniere. L'afa e l'umidità lasciarono il posto ad un caldo secco durante il giorno e un freddo intenso di notte. A poco a poco notai come la mia salute migliorasse a passi da gigante.
Una fredda mattina arrivammo a Potosí, l'epicentro minerario di quella regione. Accanto alla miniera, gli spagnoli avevano costruito una città per sfruttare i giacimenti d'argento. Gli indigeni lavoravano per un salario minimo in condizioni così disumane che molti di loro non riuscivano a sopravvivere. Il servizio nelle miniere durava un anno e gli era stato vietato di tornare a lavorare al loro interno fino a quando non ne erano trascorsi altri sette, ma molti indios si facevamo assumere di nuovo come lavoratori liberi.
Passammo oltre le case precarie dove vivevano i minatori con le loro famiglie e attraversammo il centro della città. Quel posto era diventato un'area ricreativa piena di mense e bordelli notturni dove i minatori avrebbero speso i loro soldi dopo una lunga ed estenuante giornata di lavoro. Ci saremmo fermati il tempo sufficiente per caricare le scorte e passare la notte.
Quel pomeriggio James andò a fare acquisti. Il professore ed io restammo in una locanda di pulci e scarafaggi di cui preferisco non parlare. Dopo aver riposato per un po', il professore uscì a prendere aria mentre guardavo dalla finestra della mia stanza come ciò che chiamavano progresso aveva trafitto le pendici di una montagna lasciandola quasi vuota all'interno. Un forte odore di mercurio e zolfo mi colpì il viso e dovetti chiudere la finestra.
Il professore era appoggiato al lungo ponte che attraversa il fiume e stava fumando la pipa quando, all'improvviso, apparvero alcuni ragazzi che lo afferrarono di colpo e lo trascinarono in fondo alla strada. Provai ad urlare, ma avevo così paura che non ero in grado di articolare una parola. Rimasi in un angolo a piangere fino alla comparsa di James.
«Lo hanno rapito in pieno giorno?»
«Non c'erano quasi nessuno per strada» risposi angosciata.
«Che aspetto avevano?» chiese, lasciando il cappello su una sedia.
«Non sembravano della zona. Uno di loro mi ha ricordato un canadese che cenava a Cartagena.»
«Ma con che razza di gentaglia abbiamo a che fare ?!» esclamò con rabbia.
«Andiamo dalla polizia» suggerii disperata.
«Non servirà a nulla» rispose, scuotendo la testa. «Li corromperanno facilmente.»
«E allora?»
«Aspetteremo il prossimo passo.»
Dopo tre ore, finalmente ricevemmo notizie dai canadesi. Mandarono la guida che avevano assunto a Cartagena con una proposta.
Ci avrebbero restituito il professore sano e salvo se gli avessimo consegnato il documento che gli avevamo rubato in hotel. Ma c'era qualcosa che non rientrava nei nostri piani: dovevamo abbandonare la spedizione e tornare a Londra.
Quello non fu di nostro gradimento, ma non avevamo altra scelta che accettare la proposta. Facemmo lo scambio quella notte e il professore tornò da noi senza un graffio.
Il mattino seguente raccogliemmo le nostre cose e tornammo per la strada che portava a Cartagena. Due portatori pagati dai canadesi ci scortarono fino alla costa colombiana, dove ci saremmo imbarcati su una nave a vapore per tornare in Europa.
Solo un dettaglio era stato trascurato. A mezzogiorno James parlò con loro e raggiunse un accordo pagando una somma di denaro superiore a quella che avevano ricevuto. L'affare fu concluso, ricevettero denaro da entrambe le parti e se ne andarono senza esitazione.
Ci voltammo e tornammo sullo stesso percorso. Avevano un giorno di vantaggio rispetto a noi ma c'era ancora molta strada da fare.
In una profonda valle racchiusa tra diverse montagne avvistammo finalmente la città di Cuzco, l'antica capitale dell'Impero Inca. L'ingresso alla città era fiancheggiato da una tripla parete a forma di zig-zag formata da grandi blocchi di pietra che la circondavano completamente.
Dopo aver attraversato la sua affollata porta salimmo per la strada principale, lasciandoci alle spalle vecchi edifici coloniali a due piani e numerose chiese. Durante il tragitto potemmo osservare che questa città non aveva quasi alcuna somiglianza con Cartagena de Indias. La maggior parte dei suoi abitanti erano discendenti degli Incas e la loro cultura era profondamente radicata.
Giunti ad una piccola piazza, attraversammo un mercato molto frequentato dove gli indigeni camminavano con diversi fardelli sulla schiena, schiacciati dall'enorme peso che sostenevano. I mercanti trasportavano la merce su carri di fortuna carichi fino in cima e le madri portavano i loro bambini appena nati in fazzoletti legati intorno al collo mentre gli anziani camminavano al loro fianco.
La strada era costellata di bancarelle di legno improvvisate con tende da sole precarie dove vendevano la loro merce: capi di alpaca, pelle conciata che tessevano a mano, tutti i tipi di frutta e verdura e alcuni pezzi di artigianato acquistati principalmente dalle élite locali. Alcuni parlavano in spagnolo mentre altri continuavano a mantenere viva la lingua Inca.
La cosa più sorprendente erano i loro abiti colorati; le donne indossavano ampie gonne dei colori più diversi, adornate con pittoreschi cappelli neri a bombetta, e gli uomini indossavano ampi poncho che li proteggevano dal freddo con enormi cappelli a tesa larga.
Sebbene la maggior parte della popolazione fosse indigena, erano ancora governati come il resto del Paese dalle élite creole, ex discendenti degli spagnoli.
A Cuzco avevamo in programma di incontrare l'archeologo Néstor Domínguez, che aveva informato la Società Geografica della scoperta fatta da alcuni contadini a circa centotrenta miglia dalla capitale. Quando persero i loro lama dovettero attraversare una vasta area montuosa dove trovarono i resti di una città sepolta dalla giungla.
Lavorava nell'archivio comunale accanto alla cattedrale di Cuzco, una delle più antiche di tutto il Sud America, situata nell'immensa Plaza de Anasen, il centro nevralgico della città, circondata da vecchi edifici con splendidi portici.
Appena entrati nell'edificio del Cabildo, si accedeva ad un magnifico chiostro che mi ha affascinò per la sua grande bellezza non appena lo vidi. Era un antico palazzo barocco di origine spagnola acquisito dal Consiglio Comunale a basso prezzo.
Era costruito su un patio rettangolare a due piani che poggiava su archi semicircolari con colonne doriche.
Dopo aver attraversato il patio trovammo diverse sale trasformate in librerie piene di volumi classici in splendidi scaffali gotici. Al piano superiore si accedeva per una scala a chiocciola sormontata da una raffinata balaustra.
Quando arrivammo, non c'era nessuno alla reception e cercammo al piano terra senza fortuna. Finalmente udimmo un rumore all'ultimo piano e decidemmo di salire.
«Lei è il signor Dominguez?»
Il peruviano si voltò e annuì.
«Il Signor Henson, suppongo» rispose con un grande sorriso. «Benvenuti nell'antica capitale del Perù. Spero che abbiate fatto un buon viaggio.»
«Non tanto quanto ci aspettavamo» risposi, con tono sarcastico.
«Non sarete abituati a questo caldo in Inghilterra. Immagino che il viaggio sarà stato duro» aggiunse. E ci strinse la mano.
«Questo è stato il minore degli inconvenienti» puntualizzò James mentre lasciavamo i pesanti zaini sul pavimento. «Margaret si è ammalata di malaria, il professor Cooper è stato rapito e abbiamo una dura concorrenza per la spedizione.»
«Lei mi lascia senza parole» ci assicurò, sorpreso. «Andiamo nel mio ufficio, deposito questi documenti