DEDICA
Dedico questo libro al mio carissimo padre, che ci ha sempre circondate di affettuose attenzioni e di bellezza e che, con la sua equilibrata autorità, l’esemplare coraggio e un meraviglioso senso dell’umorismo, ha saputo rendere il nostro focolare un’oasi di pace.
Lo dedico anche alla mia cara madre, perché ha sempre guidato la sua “piccola” e l’ha aiutata a diventare un’adulta felice, attorniandola di amore materno e costante sostegno unito a infinita pazienza.
Anche Adolphe Koehl, il miglior amico del papà, merita un particolare ricordo: la sua immensa generosità ci ha permesso di attraversare i momenti difficili; il suo coraggio eccezionale e la saggezza pratica delle sue parole hanno illuminato il mio cammino.
Alla mia carissima zia Eugénie che ci ha offerto tutte le sue risorse e non ha esitato a rischiare la vita per noi, quando eravamo stati privati di tutto. È stata proprio una seconda mamma.
Non voglio dimenticare Marcel Sutter, mio amico e fratello. La sua vita esemplare e devota mi è stata di grande incoraggiamento.
Penso anche a Charles Eicher, che mi ha invitato a New York e, soprattutto, mi ha fatto conoscere il mio “Liebster”, il mio amatissimo marito, e mi ha aiutata a cominciare una nuova vita ricca di esperienze e soddisfazioni di ogni genere.
Titolo originale:
FACING THE LION: Memoirs of a Young Girl in Nazi Europe
Grammaton Press, New Orleans
Versione italiana tradotta dal francese, con la diretta consultazione dell’autrice.
CENNI STORICI
Durante il periodo nazionalsocialista le credenze, l’insegnamento e le attività dei Testimoni di Geova costituivano una confessione nettamente in contrasto con l’ideologia dello Stato nazista. Questo piccolo gruppo di circa 20.000–25.000 membri era composto di “persone comuni” provenienti dalla Germania e dalle regioni annesse dal Terzo Reich. Proclamavano pubblicamente la loro fede in una specie di regno fantasma totalmente incompatibile col regime nazista. Si opponevano alle leggi razziali istituite dallo Stato, al giuramento di fedeltà ad Adolf Hitler, al saluto tedesco e all’obbligo di imbracciare le armi in nome della Germania.
Le statistiche sono ora note: quasi 10.000 testimoni di Geova furono incarcerati e almeno 2.000 furono deportati in campi di concentramento nazionalsocialisti. Di questi almeno la metà venne assassinata, 250 per esecuzione capitale.
Per il periodo del terrore nazionalsocialista le informazioni sulla quotidiana lotta per la sopravvivenza di questo insolito e risoluto gruppo di uomini, donne e bambini sono pochissime.
L’importanza della biografia di Simone Arnold Liebster diviene quindi decisiva, in quanto conferisce un nome e una voce alle statistiche. Attraverso gli occhi e i ricordi di una bambina, testimonia la lotta spirituale contro una mostruosa ingiustizia.
Una semplice dichiarazione di lealtà allo Stato o un unico atto di abiura avrebbero garantito la tranquillità o la liberazione dall’inferno dei campi di lavoro o di concentramento, nonché dalla violenza e dall’assassinio. Coloro che hanno resistito alle forze del terrore nazista meritano un posto e un’ammirazione particolare. Grazie a loro possiamo sperare e credere al trionfo finale del Bene.
Simone Arnold Liebster merita di figurare tra queste persone fuori dal comune.
Abraham J. Peck
Vicepresidente dell’Associazione
delle Organizzazioni per l’Olocausto
PREFAZIONE
Dice Simone Arnold Liebster, ad un certo punto della narrazione, quando si appresta ad andare verso la sua naturale conclusione: “Riprendemmo quasi subito la nostra routine quotidiana. Niente era veramente cambiato: la gente faceva sempre la coda davanzi ai negozi. (…) In Alsazia la liberazione dalle barbarie dei nazisti non era bastata a cancellare gli spaventosi giorni di guerra, le innumerevoli vittime e le distuzioni massicce. Quei terribili ricordi suscitavano sentimenti di afflizione e amarezza”. E poche pagine oltre aggiunge, con sobria e soave chiarezza che “reduci da un lungo periodo di prigioni, ci vollero molti sforzi per imparare a condurre una vita normale. Abituate a camminare per strada con timorosa circospezione, all’inizio fu un’impresa mescolarci disinvolte tra la folla”.
In queste poche righe c’è il senso di un’esperienza, di una esile vita che attraversò una bufera e ne uscì. Senz’altro cambiata, trasformata. Ma anche rafforzata. Poiché se il dolore può annichilire e annientare, comunque appannare l’orizzonte della nostra quotidianità, rendendocelo incomprensibile, è altrettanto vero che ci pone, nella sua radicalità, dinanzi a quesiti altrettanto estremi. E come tali ineludibili. Ai quali, insomma, bisogna pur trovare una risposta.
Il libro che il lettore si appresta a sfogliare e, ci auguriamo, a leggere, è il resoconto, onesto e sincero, di una giovane esistenza e, con essa, di un’epoca difficile se non terribile. Redatto con parole semplici e genuine per parte di chi non ha mai fatto, in senso strettamente professionale, esercizio d’intellettualità, ma che ha sempre usato la sua propria intelligenza per comprendere il significato dei fatti, può di buon grado essere definito come il racconto di una sopravvissuta. Le parole che intessono la trama del racconto costituiscono un vertiginoso sguardo, offertoci con gli occhi di una bambina prima e di una ragazzina poi, sull’abisso che si era aperto nelle società e negli spiriti del periodo storico nel quale i fatti narrati si dipanano. Che è poi quello in cui Adolf Hitler e la sua accolita brutalizza la Germania prima e l’Europa poi. Parole che sono, al contempo, indice ed epitome del bisogno di darsi una ragione rispetto a questa collettiva discesa agli inferi. Bisogno che nei pensieri e nella condotta della piccola protagonista, Simone Arnold Liebster, voce narrante di un mondo convulso e aggressivo e soggetto esplorante un universo di adulti spesso ostili, si traduce nella maturazione, condivisa con i famigliari, di fare propri i dettami di un credo che informa di sé le scelte quotidiane. Ponendole in rotta di collisione con quel che altri avrebbero definito come lo “spirito dei tempi senza spirito”. E pagando di prima persona il tributo richiesto per la coerenza maturata e conquistata attraverso un esercizio di autoapprendimento e di riflessione critica sulle circostanze della propria, e altrui, esistenza.
La letteratura di testimonianza per parte di coloro che vissero eventi in sé unici è divenuta un genere a sé nella produzione di libri e nella documentazione relativa ad un secolo, quello appena trascorso, che si è caratterizzato per tanti aspetti, buoni e meno buoni, ma non da ultimo per una intrinseca ferocia. Che si esercitò prevalentemente contro civili indifesi, colpevoli del fatto stesso di esistere e di vedersi ascritta, come responsabilità indelebile, la propria condizione di esseri umani e i convincimenti professati e praticati.
La vicenda degli universi concentrazionari, ovvero di quel variegato complesso di istituzioni segregative, ben diverse per funzione e finalità dalle carceri ordinarie, che sorsero in alcuni paesi europei, a partire dalla Germania, a fare dagli anni immediatamente antecedenti la seconda guerra mondiale, è oramai cosa che ci è ben nota, grazie anche ai molti racconti che coloro che vissero quella terrificante esperienza ci hanno reso della stessa.
Parimenti è compiutamente risaputa e riconosciuta la natura criminale di quei regimi che alimentarono tale sistema di repressione delle opposizioni politiche, di oppressione delle minoranze culturali, sociali e spirituali e di annientamento di quanti erano considerati di “razza inferiore” o titolari di “una vita degna di non essere vissuta” o, ancora, marchiati come “asociali” o “traditori” di una qualche causa in omaggio alla quale identificare e offrire sempre nuove vittime. La cosiddetta “comunità di stirpe”, forgiata nel “sangue”, avrebbe così istituito un “nuovo ordine”, fondato sul ripristino della schiavitù, sull’azzeramento delle libertà, sull’annichilimento delle diversità.
Sotto l’apparente asetticità e enigmaticità di tali, ed altre, espressioni, si celava infatti l’intendimento di distruggere il pluralismo che aveva fino ad allora caratterizzato il nostro continente, nel nome della presunta superiorità di un gruppo umano, per l’appunto definito