Erano anni che volevo riacquistare, simbolicamente, quel vinile degli Attacker, finito perso o venduto in chissà quale buco nero dei miei anni di adolescente. Ho sempre ricordato il nome del bassista, chissà come mai: Lou Ciarlo. Un eccellente bassista, per quel che doveva fare in quel contesto.
Ho acquistato Battle at helm’s deep giorni fa, ristampato in vinile verde, più poster, da un’etichetta greca, la Eat Metal Records. Forse me lo metto in cornice. Così come ho incorniciato, come ricordo, il violento e sfacciato coraggio di quegli anni vissuti sotto le insegne malferme di un’epica ingenuità, disarmata e spesso controproducente.
Oggi sono uno dei tanti disillusi e cinici che girano per il mondo, con il mio carico di ferite, di vendette consumate o in preparazione; di amori abortiti, di confessioni interrotte sul più bello, di imprese fallimentari e di rapporti umani andati a puttane senza ombrello. Oggi mi sento il Batman incarnato da Bale, non il Joker. Le tenebre devono fare paura a chi deve averne, e per quanto mi riguarda devono essere l’atmosfera dei regni che sono riuscito a dominare contro ogni previsione esterna. Sì, è vero: uno dei miei grandi difetti è che mi innamoro prima delle atmosfere e poi, e non è detto, del resto. Ma cosa posso farci se mi sento un uomo di vento, e devo quindi cercare i luoghi adatti dove far sentire la mia voce senza essere condannato o fare paura? Il male è restare fermi. Il male è non ricordare le emozioni. Il male è tradirsi per avere accesso a qualcosa che non dovrebbe essere concessione ma sbocco naturale. Come il lavoro, per esempio.
Ma questa è un’altra storia. E allora lunga vita agli Attacker e alla pioggia in cui mi perdo già da ore scrutando il nulla da questa sedia, nelle tenebre tascabili di una nuova stanza lontana dal lontano, che non voglio più.
V
L’effetto Power Play trent’anni dopo
Nel 1988 ero appena un sedicenne. Già da tre anni bazzicavo tanto le sigarette (di mio padre) quanto la musica di Bill Evans, di cui il mio vecchio possedeva alcuni rari 45 giri con Sam Jones al contrabbasso e Philly Jo Jones alla batteria.
Come le sigarette arrivai a consumarli tutti, uno dopo l’altro, fino alla fine e senza alcuna tregua. A sedici anni non potevo certo avere le idee chiare sul mondo del contrabbasso, e nemmeno sulla consecutio dei bassisti che si erano succeduti alla corte di Bill Evans. Scott LaFaro aveva nei fatti demolito le mie timide simpatie per il pop e in quei giorni stavo cercando di approfondire la figura di Eddie Gomez. Inoltre, non avevo la minima idea che il contrabbasso si potesse amplificare e in generale ignoravo ancora troppe cose. Non essendoci Internet, ero principalmente dotato di buona volontà e di quella ostinazione equilibrata che sopraggiunge quando un’ossessione assume un senso ben preciso e addirittura un progetto di conoscenza di lungo termine, seppur poco strutturato.
Nel dicembre del 1988, con mia somma sorpresa, il mio commesso di dischi preferito
(uno dei miei primi formatori) ci tenne a farmi sapere che era appena uscito un disco solista di Eddie Gomez. Mi venne il batticuore.
«E com’è?», gli domandai.
«Terrificante»
«Cioè bellissimo?»
«No, una vera ciofeca»
«Ah... ma come è possibile, scusa?»
«Ci sono dei grandi musicisti, spesso bassisti, che fanno dei dischi solisti bruttissimi. Non te lo consiglio»
«Capisco, ma dov’è? Dov’è, lo voglio vedere!»
Armando mi indirizzò verso lo scaffale “Novità Jazz” e dopo quattro o cinque vinili mi comparve davanti la sorniona faccia latina di Eddie Gomez, accompagnato dal suo contrabbasso e da una bella donna che sembrava respirargli sulla spalla. La copertina era su sfondo violaceo/rosa e il disco si intitolava Power Play.
Non chiesi ad Armando di ascoltarlo. Sfilai direttamente le quindicimila lire dal portafogli e gli dissi che lo avrei portato alla cassa. Non fece una bella espressione, Armando. Sembrava davvero contrariato. Capendo l’antifona, mi sembrò naturale giustificarmi: «Magari hai ragione, tu sei molto più esperto di me, ma qui si sta parlando di un musicista che il contrabbasso lo fa cantare e io SENTO IL DOVERE di acquistare questo vinile, io devo sostenere questo marziano!»
Armando mi sorrise. Devo dirlo, fu un sorriso molto bello. Da fratello maggiore che accettava questa forma di devozione. Già, perché proprio di devozione si trattava, per non dire gratitudine. Eddie Gomez mi aveva sconvolto in You must believe in spring, così come Scott LaFaro mi aveva convinto che la mia anima e quello che ci vagolava dentro potesse avere un suono corrispondente nella realtà, anche se non grazie alle mie mani.
Piazzai il disco di Eddie come un totem sulla piccola scrivania di casa mia. Lo aprii solo dopo una settimana e lo ascoltai con attenzione. Certo, non era propriamente jazz, non somigliava neanche un po’ alla musica di Bill Evans, però mi piaceva. Data l’età e l’inesperienza di ascoltatore, non poteva non piacermi; e il processo di consolidamento della mia ossessione per lo strumento e il suo mondo contribuivano non poco a rendermi scarsamente obiettivo e certamente di parte. Un aspetto da non trascurare riguardava il fascino che esercitava su di me la copertina. E certo. Raffigurava un mio idolo, lo strumento che amavo di più e una bella donna, su sfondo quasi viola. Non potevo chiedere di più.
In questi giorni, trascorso un trentennio da allora, ho riascoltato Power Play con addosso un senso di tenerezza misto a nostalgia. La devozione non è affatto scomparsa, semmai si è rafforzata. Naturalmente, sono consapevole che si trattava di un tentativo, da parte di Eddie, di unire una base ovviamente jazz con nuove e forse poco ponderate esigenze commerciali; in più, avevo rimosso che in questo album il grande bassista portoricano si cimentava addirittura, in un brano, con un basso elettrico verticale, il Merchant Vertical Bass.
So benissimo che Eddie Gomez ha dato in realtà il suo meglio – che è eccelso, tanto per ribadire – in altri contesti, non solo con Bill Evans. Però non riesco a considerare questo disco come uno qualunque, da conservare solo per devozione, appunto. Penso sia una questione di rapporto affettivo, che mi spinge ancora oggi a difenderne strenuamente il valore e la portata, troppo facilmente contestabili, da me in primis.
Amo moltissimo i dischi di contrabbasso solo, l’improvvisazione più selvaggia; il mio approccio uditivo verso il contrabbasso è di marca piuttosto free, un aspetto che potrebbe indurmi a dileggiare questo tipo di operazioni. Certe volte accade che il lavoro di qualche contrabbassista si riveli troppo commerciale o tradizionale per i miei gusti. Che la commistione di moderno e dogmatico mi sia indigesta, e ancor di più che una pulsione troppo “fusionara” mi disturbi addirittura.
Power Play è fuori da questa ambigua galassia, è prima di tutto un tenero ricordo, un caposaldo di una passione vecchia quasi quanto la mia intera esistenza.
Lo stesso discorso potrei anche farlo per un disco di Miroslav Vitous, Majesty Music, che non è certo uno dei suoi più riusciti. Sono i dischi con i quali ho cominciato; sono quelli che hanno sostituito i Duran Duran e gli Spandau Ballet (con tutto il rispetto); gli stessi che mi hanno salvato dalla seccante e vizza dicotomia Beatles/Rolling Stones. Sono i dischi della scoperta, tra i quali, come è ovvio, ci sono dei capolavori che mi hanno cambiato cervello, orecchie e cuore.
Power Play non è e non sarà mai considerato un capolavoro. Ma è mio, mi appartiene come tutte le svolte appartengono agli uomini che hanno la fortuna di viverle.
E così, faccio una pausa dai pensosi e intensi dischi che ho preso ad ascoltare ultimamente, quelli di Moppa Elliott, Bob Magnusson, le collaborazioni del grande Chuck Domanico, la fissazione