Andate via da codesta casa; ripassate fra tre o quattr'anni a rivederla con un altro animo da questo d'oggi; vedrete che ne sarà piú di codesta cara realtà.
– Uh guarda, questa la stanza? questo il giardino?
E speriamo per amor di Dio, che non vi sia morto qualche altro parente prossimo, perché vediate anche voi come un camposanto tutti quei cari cipressi là.
Ora dite che questo si sa, che l'animo muta e che ciascuno può sbagliare.
Già storia vecchia, difatti.
Ma io non ho la pretesa di dirvi niente di nuovo. Solo vi domando:
– E perché allora, santo Dio, fate come se non si sapesse? Perché seguitate a credere che la sola realtà sia la vostra, questa d'oggi, e vi maravigliate, vi stizzite, gridate che sbaglia il vostro amico, il quale, per quanto faccia, non potrà mai avere in sé, poverino, lo stesso animo vostro? –
IV. Scusate ancora.
Lasciatemi dire un'altra cosa, e poi basta.
Non voglio offendervi. La vostra coscienza, voi dite. Non volete che sia messa in dubbio. Me n'ero scordato, scusate. Ma riconosco, riconosco che per voi stesso, dentro di voi, non siete quale io, di fuori, vi vedo. Non per cattiva volontà. Vorrei che foste almeno persuaso di questo. Voi vi conoscete, vi sentite, vi volete in un modo che non è il mio, ma il vostro; e credete ancora una volta che il vostro sia giusto e il mio sbagliato. Sarà, non nego. Ma può il vostro modo essere il mio e viceversa?
Ecco che torniamo daccapo!
Io posso credere a tutto ciò che voi mi dite. Ci credo. Vi offro una sedia: sedete; e vediamo di metterci d'accordo.
Dopo una buona oretta di conversazione, ci siamo intesi perfettamente.
Domani mi venite con le mani in faccia, gridando:
– Ma come? Che avete inteso? Non mi avevate detto cosí e cosí?
Cosí e cosí, perfettamente. Ma il guajo è che voi, caro, non saprete mai, né io vi potrò mai comunicare come si traduca in me quello che voi mi dite. Non avete parlato turco, no. Abbiamo usato, io e voi la stessa lingua, le stesse parole. Ma che colpa abbiamo, io e voi, se le parole, per sé, sono vuote? Vuote, caro mio. E voi le riempite del senso vostro, nel dirmele; e io nell'accoglierle, inevitabilmente, le riempio del senso mio. Abbiamo creduto d'intenderci, non ci siamo intesi affatto.
Eh, storia vecchia anche questa, si sa. E io non pretendo dir niente di nuovo. Solo torno a domandarvi:
– Ma perché allora, santo Dio, seguitate a fare come se non si sapesse? A parlarmi di voi, se sapete che per essere per me quale siete per voi stesso, e io per voi quale sono per me, ci vorrebbe che io, dentro di me, vi déssi quella stessa realtà che voi vi date, e viceversa; e questo non è possibile?
Ahimè caro, per quanto facciate, voi mi darete sempre una realtà a modo vostro, anche credendo in buona fede che sia a modo mio; e sarà, non dico; magari sarà; ma a un «modo mio» che io non so né potrò mai sapere; che saprete soltanto voi che mi vedete da fuori: dunque un «modo mio» per voi, non un «modo mio» per me.
Ci fosse fuori di noi, per voi e per me, ci fosse una signora realtà mia e una signora realtà vostra, dico per se stesse, e uguali, immutabili. Non c'è. C'è in me e per me una realtà mia: quella che io mi do; una realtà vostra in voi e per voi: quella che voi vi date; le quali non saranno mai le stesse né per voi né per me.
E allora?
Allora, amico mio, bisogna consolarci con questo: che non è piú vera la mia che la vostra, e che durano un momento cosí la vostra come la mia.
Vi gira un po' il capo? Dunque dunque... concludiamo.
V. Fissazioni.
Ecco, dunque, volevo venire a questo, che non dovete dirlo piú, non lo dovete dire che avete la vostra coscienza e che vi basta.
Quando avete agito cosí? Jeri, oggi, un minuto fa? E ora? Ah, ora voi stesso siete disposto ad ammettere che forse avreste agito altrimenti. E perché? Oh Dio, voi impallidite. Riconoscete forse anche voi ora, che un minuto fa voi eravate un altro.
Ma sí, ma sí, mio caro, pensateci bene: un minuto fa, prima che vi capitasse questo caso, voi eravate un altro; non solo, ma voi eravate anche cento altri, centomila altri. E non c'è da farne, credete a me, nessuna maraviglia. Vedete piuttosto se vi sembra di poter essere cosí sicuro che di qui a domani sarete quel che assumete di essere oggi.
Caro mio, la verità è questa: che sono tutte fissazioni. Oggi vi fissate in un modo e domani in un altro.
Vi dirò poi come e perché.
VI. Anzi ve lo dico adesso.
Avete mai veduto costruire una casa? Io, tante, qua a Richieri. E ho pensato:
«Ma guarda un po' l'uomo, che è capace di fare! Mutila la montagna; ne cava pietre; le squadra; le dispone le une sulle altre e, che è che non è, quello che era un pezzo di montagna è diventato una casa.»
– Io – dice la montagna – sono montagna e non mi muovo.
Non ti muovi, cara? E guarda là quei carri tirati da buoi. Sono carichi di te, di pietre tue. Ti portano in carretta, cara mia! Credi di startene costí? E già mezza sei due miglia lontano, nella pianura. Dove? Ma in quelle case là, non ti vedi? una gialla, una rossa, una bianca; a due, a tre, a quattro piani.
E i tuoi faggi, i tuoi noci, i tuoi abeti?
Eccoli qua, a casa mia. Vedi come li abbiamo lavorati bene? Chi li riconoscerebbe piú in queste sedie, in questi armadi; in questi scaffali?
Tu montagna. sei tanto piú grande dell'uomo; anche tu faggio, e tu noce e tu abete; ma l'uomo è una bestiolina piccola, sí, che ha però in sé qualche cosa che voi non avete.
A star sempre in piedi, vale a dire ritta su due zampe soltanto, si stancava; a sdraiarsi per terra come le altre bestie non stava comoda e si faceva male, anche perché, perduto il pelo, la pelle eh! la pelle le è diventata piú fina. Vide allora l'albero e pensò che se ne poteva trar fuori qualche cosa per sedere piú comodamente. E poi sentí che non era comodo neppure il legno nudo e lo imbottí; scorticò le bestie soggette, altre ne tosò e vestí il legno di cuoio e tra il cuoio e il legno mise la lana; ci si sdraiò sopra, beato:
– Ah, come si sta bene cosí!
Il cardellino canta nella gabbietta sospesa tra le tende al palchetto della finestra. Sente forse la primavera che s'approssima? Ahimè, forse la sente anch'esso l'antico ramo del noce da cui fu tratta la mia seggiola, che al canto del cardellino ora scrícchiola.
Forse s'intendono, con quel canto e con questo scricchiolìo, l'uccello imprigionato e il noce ridotto seggiola.
VII. Che c'entra la casa?
Pare a voi che non c'entri questo discorso della casa, perché adesso la vedete come è, la vostra casa, tra le altre che formano la città. Vi vedete attorno i vostri mobili che sono quali voi secondo il vostro gusto e i vostri mezzi li avete voluti per i comodi vostri. Ed essi vi spirano attorno il dolce conforto familiare, animati come sono da tutti i vostri ricordi; non piú cose, ma quasi intime parti di voi stessi, nelle quali potete toccarla e sentirla quella che vi sembra la realtà sicura della vostra esistenza.
Siano di faggio o di noce o d'abete, i vostri mobili sono, come i ricordi della vostra intimità domestica, insaporati di quel particolare alito che cova in ogni casa e che dà alla nostra vita quasi un odore che piú s'avverte quando ci vien meno, appena cioè, entrando in un'altra casa, vi avvertiamo un alito diverso. E vi secca, lo vedo, ch'io v'abbia richiamato ai faggi,