Giuseppe era stupefatto. “Capisco. Dovrò parlarne con il mio comandante. Grazie.” Si girò, lasciò l'edificio, e ritornò a riferire quello che gli era stato detto.
“Non vogliono essere liberati?” Gramatika era sconcertato. “Beh, non sta a loro decidere quello che vogliono,” proseguì in modo poco razionale, “li libereremo comunque. Spiegaglielo e di' loro di procurarci degli alloggi. Se non vogliono collaborare, dovremo obbligarli a farlo.”
Giuseppe tornò nell'ufficio del sindaco. Il vecchio era ancora seduto su una sedia davanti alla scrivania, sulla quale c'era un vassoio rotondo di ottone sormontato da un treppiede con un grande anello in cima. Sul vassoio c'erano due piccole tazze vuote. Il sindaco salutò Giuseppe, indicandogli una sedia libera su cui si sedette l'italiano. “Kaffee?” chiese e, ricevendo un cenno d'assenso, urlò qualcosa a qualcuno presente nell'ufficio adiacente. Una segretaria entrò, sollevò il vassoio per l'anello e lo portò fuori dalla stanza. Non venne detto nulla fino a quando la donna ritornò portando il vassoio su cui ora stavano tre tazze del forte caffè dolce amato dai Greci e dai Turchi. Tutti presero una tazza. Giuseppe, abituato al forte espresso italiano, ne bevette una lunga sorsata, e rimase sorpreso dalla dolcezza del caffè e dal ritrovarsi la bocca piena dei residui presenti sul fondo della tazza. Li inghiottì, non volendo mostrare il suo disagio.
Il sindaco disse qualcosa e il vecchio tradusse, “Quindi?”
Giuseppe ripeté quello che gli era stato detto. I Greci dovevano trovare degli alloggi per gli italiani e non sarebbero stati pagati. L'isola era sotto il controllo italiano e il comandante italiano prometteva che le cose sarebbero andate per il meglio per i greci, ma si aspettava la loro cooperazione.
Quando questo fu spiegato al sindaco, l'uomo emise un sospiro esasperato. “Molto bene, non possiamo combattervi e neppure vogliamo farlo,” tradusse il vecchio. “Troveremo delle stanze per i vostri uomini e speriamo che ci rispetterete e che ci permetterete di proseguire come facevamo prima che ci ‘liberaste’.” L'ultima parola fu detta con un tono sarcastico.
Fu accordato non senza difficoltà che gli italiani che sarebbero rimasti sull'isola sarebbero stati messi inizialmente in case private vuote. Giuseppe, sollevato che fosse passata la freddezza iniziale, accettò l'offerta di un'altra tazza di caffè – assicurandosi questa volta di bere solo la piccola parte liquida in cima – e poi, dopo gli amichevoli saluti, lasciò l'ufficio e ritornò dai suoi uomini.
Gramatika aveva ordinato agli uomini di sciogliere le righe e di rilassarsi. Erano seduti all'esterno di un piccolo bar, riparato dal sole da canne di bambù sorrette da una struttura di legno. Sembravano molto a loro agio e Gramatika invitò Giuseppe a sedersi a un tavolino vicino a lui. “Come è andata?”
“Bene,” disse Giuseppe. “Sono d'accordo nel trovarci delle sistemazioni ora che si sono calmati. Anche se non sono particolarmente felici che abbiamo cacciato i turchi.”
“No, l'avevo capito. Il nostro interprete è tornato pochi minuti fa e ci ha spiegato che gli è stato detto che la nostra forza di ‘liberazione’ è più come una forza di occupazione. Birra?”
Prese il silenzio di Giuseppe come un assenso e chiamò la cameriera, “due birre”. Lei sollevò due dita e guardò in modo interrogativo, rientrando nel bar e ritornando con due birre quando lui annuì. Lui le porse una moneta che lei guardò sospettosamente e poi disse qualcosa in greco.
“Sono soldi italiani,” disse, “Lira, capisce?”
Lei scosse la testa, disse qualcos'altro e mise il denaro sul tavolo. In quel momento, arrivò il vecchio e Giuseppe lo chiamò. “Può spiegare alla ragazza che questi sono soldi italiani e che qui sono validi?”
L'uomo si rivolse alla ragazza in greco. Lei guardò le monete, le prese e girandole lesse le iscrizioni. Il vecchio tradusse la sua risposta, “Non so cosa siano questi. Ora li prendo ma, se mi avete imbrogliata, mi lamenterò con il sindaco.”
“E noi non vogliamo che accada, giusto?” disse Gramatika. Le porse altre monete. “Dovrebbero essere sufficienti.”
Lei le guardò di nuovo con sospetto, poi, scuotendo la testa, ritornò nel retro del bar e le depositò con attenzione in cassa.
“Questo è un'altra cosa che dovremmo sistemare – il denaro,” disse Gramatika con un sospiro.
Dopo aver aiutato gli uomini a sistemarsi nei loro alloggi, Giuseppe fu sollevato quando gli fu ordinato di ritornare sulla nave per fare rapporto al Capitano.
“Allora, Malpaiso, cosa faremo con lei ora? Ci servono degli ufficiali a terra per rendere questo posto una base per la nostra flotta. Questo significa che ci servono dei buoni ingegneri. Sarebbe una ottima opportunità per lei” disse il Capitano. “Vuole restare qui o continuare con noi?”
“Sono onorato per avermi considerato, signore, ma preferirei restare con la nave – ho ancora molto da imparare.”
Dopo aver lasciato Gramatika e un gruppo di soldati sull'isola, la San Marco si allontanò per unirsi al resto della flotta italiana. Tutte le isole del Dodecaneso erano state prese senza molti problemi, e la bandiera italiana sventolava su tutte le città principali delle isole.
Navigarono a nord verso i Dardanelli, lo stretto che portava dalla parte nordorientale del Mar Egeo verso la capitale turca, Istanbul. Lì supportarono un attacco piuttosto blando dei caccia torpedinieri italiani contro le posizioni turche prima di staccarsi e di ritornare al porto italiano di Brindisi.
Per Giuseppe, le ultime settimane della guerra non furono per nulla eccitanti e si ritrovò a domandarsi se sarebbe stato meglio se fosse rimasto a Lero con il suo amico Gramatika.
Dopo il termine della guerra italo-turca, Giuseppe si iscrisse all'Università per studiare ingegneria e passò la maggior parte degli anni della prima guerra mondiale a studiare a Pisa, vicino alla base navale di La Spezia. Non era più in Marina ma mantenne i contatti con alcuni dei suoi colleghi della San Marco.
L'università di Pisa era nota per i suoi corsi di lingua. A causa della sua esperienza nel mar Egeo, Giuseppe aveva cominciato a interessarsi alla cultura greca e decise di frequentare anche un corso di greco, oltre ai suoi corsi principali Questo significava studiare il greco antico ma il suo tutor parlava greco e insistette affinché i suoi studenti imparassero a conversare nella versione moderna della lingua.
Il suo alloggio nella parte più povera di Pisa, dava su una strada trafficata, e, mentre studiava, osservava le persone che andavano e venivano dalla fermata dell'autobus. Una ragazza in particolare lo colpì- I suoi capelli biondi e la sua figura slanciata la faceva spiccare rispetto alle comuni ragazze italiane dai capelli scuri. Ogni giorno la vedeva andare alla fermata, aspettare l'autobus e, di sera, cominciò ad aspettare che tornasse. Era alta e magra e camminava con una certa grazia.
Una sera, quando la ragazza scese dall'autobus, Giuseppe vide un gruppo di giovani andare verso di lei. La finestra era aperta e sentì loro dirle “ciao, cara, come sta?” Lei li ignorò e continuò a camminare, ma loro le si misero davanti. Quando cercò di superarli, le bloccarono la strada e uno di loro le prese il braccio, “su ragazza, cosa c'è che non va?”
Lei non rispose, cercando di liberarsi dalla stretta, ma il giovane non la lasciò andare. “Lasciatemi in pace.”
“No, non faccia così. Vogliamo solo parlare, tutto qui” disse il suo tormentatore. Un altro giovane sogghignò.
“Lasciatemi andare” disse lei cercando di sfuggire alla presa.
“Ma se ci siamo appena conosciuti” disse lui spingendola contro un edificio. Gli altri la circondarono mentre lui cercava di baciarla. Lei ora stava lottando, cercando con tutte le sue forze di liberarsi del muro di giovani.
Giuseppe non poteva permettere che questo succedesse. Uscì di corsa dal suo appartamento, scese le scale e arrivò in strada. “Ehi, lasciatela stare!” urlò.
“Non