Morto com'era già per tutti, restava vivo solo per essi, vivo e con tutto il peso di quella vita inutile, di cui egli ora, in fondo, si sentiva liberato. Potevano buttarlo via come niente, quel peso che non aveva più valore per nessuno, di cui nessuno più si curava; e invece, no, se lo tenevano addosso, lo sopportavano rassegnati alla pena che da loro stessi s'erano inflitta, e non solo non se ne lagnavano, ma veramente facevano di tutto per rendersela più gravosa con le cure che gli prodigavano. Perché, sissignori, gli s'erano affezionati, tutti e tre, come a qualche cosa che appartenesse a loro, ma proprio a loro soltanto e a nessun altro più, e dalla quale misteriosamente traevano una soddisfazione, di cui, seppur la loro coscienza non sentiva il bisogno, avrebbero per tutta la vita avvertito la mancanza, quando fosse venuta loro a mancare.
Fillicò un giorno portò su alla grotta la moglie, che aveva un bimbo attaccato al petto e una ragazzetta per mano. La ragazzetta recava al nonno una bella corona di pan buccellato.
Con che occhi erano rimaste a mirarlo, madre e figlia! Dovevano essere passati già parecchi mesi dalla cattura, e chi sa come s'era ridotto: la barba a cespugli sulle gote e sul mento; sudicio, strappato… Ma rideva per far loro buona accoglienza, grato della visita e del regalo di quel buon pane buccellato. Forse però era appunto il riso in quella sua faccia da svanito, che faceva tanto spavento alla buona donna e alla ragazzetta.
– No, carinella, vieni qua… vieni qua… Tieni, te ne do un pezzetto; mangia… L'ha fatto mamma?
– Mamma…
– Brava! E fratellini, ne hai? Tre? Eh, povero Fillicò, già quattro figli… Portameli, i maschietti: voglio conoscerli. La settimana ventura, bravo. Ma speriamo che non ci arrivi…
Ci arrivò. Altro che! Lunga, proprio lunga volle Dio che fosse la punizione. Per più di altri due mesi la tirò!
Morì di domenica, una bella serata che lassù c'era ancora luce come se fosse giorno. Fillicò aveva condotto i suoi ragazzi, a vedere il nonno, e anche Manuzza, i suoi. Tra quei ragazzi morì, mentre scherzava con loro, come un ragazzino anche lui, mascherato con un fazzoletto rosso sui capelli lanosi.
I tre accorsero a raccoglierlo da terra, appena lo videro cadere all'improvviso, mentre rideva e faceva tanto ridere quei ragazzi.
Morto?
Scostarono i ragazzi; li fecero andar via con le donne. E lo piansero, lo piansero, inginocchiati tutti e tre attorno al cadavere, e pregarono Dio per lui e anche per loro. Poi lo seppellirono dentro la grotta.
Per tutta la vita, se a qualcuno per caso avveniva di ricordare davanti a loro il Guarnotta e la sua scomparsa misteriosa:
– Un santo! – dicevano. – Oh! Andò certo diritto in paradiso con tutte le scarpe, quello!
Perché il purgatorio erano certi d'averglielo dato loro là, su la montagna.
Guardando una stampa
Un viale scortato da giganteschi eucalipti. A sinistra, un poggio con su in cima un ricovero notturno. Due mendicanti che confabulano tra loro per quel viale, e che hanno lasciato un po' più giù sulla spalletta una bisaccia e una stampella. Un'alba di luna che si indovina dal giuoco delle ombre e delle luci.
È una vecchia stampa, ingenua e di maniera, che quasi commuove per il piacere manifesto che dovette provare l'ignoto incisore nel far preciso tutto ciò che ci poteva entrare: questa zana qua, per esempio, a piè del poggio, con l'acqua che vi scorre sotto la palancola; e là quella bisaccia e quella stampella sulla spalletta del viale; il cielo dietro il poggio con quel ricovero in cima; e il chiaror lieve e ampio che sfuma nella sera dalla città lontana.
S'immagina che debba arrivare il rombar sordo della vita cittadina, e che qua tra gli sterpi del poggio forse qualche grillo strida di tratto in tratto nel silenzio, e che se la romba lontana cessi per un istante, si debba anche udire il borboglio fresco sommesso dell'acqua che scorre per questa zana sotto la palancola e il tenue stormire di questi alti alberi foschi. La luna che s'indovina e non si vede, quella bisaccia e quella stampella illuminate da essa, l'acqua della zana e questi eucalipti formano per conto loro un concerto a cui i due mendicanti restano estranei.
Certo, per fare da sentinelle alla miseria che va ogni notte a rintanarsi in quel ricovero su in cima al poggio, più bella figura farebbero, lungo questo viale, alberetti gobbi, alberetti nani, dai tronchi ginocchiuti e pieni di giunture storpie e nodose, anziché questi eucalipti che pare si siano levati così alti per non vedere e non sentire.
Ma la pena che fa tutta questa puerile precisione di disegno è tanta che vien voglia di comunicare a tutte le cose qui rappresentate, a questi due mendicanti che confabulano tra loro appoggiati alla spalletta del viale, quella vita che l'ignoto incisore, pur con tutto lo studio e l'amore che ci mise, non riuscì a comunicare. Oh Dio mio, un po' di vita, quanto può averne una vecchia stampa di maniera.
Vogliamo provarci?
Per cominciare, questi due mendicanti, uno mi pare che si potrebbe chiamare Alfreduccio e l'altro il Rosso.
La luna è certo che sale di là; da dietro gli alberi. E più volte, scoperti da essa, Alfreduccio e il Rosso si sono tratti più su, nell'ombra, lasciando al posto di prima, sulla spalletta, la bisaccia e la stampella. Parlano tra loro a bassa voce. Il Rosso s'è tirati sulla fronte gli occhialacci affumicati e, parlando, fa girare per aria la corona del rosario e poi se la raccoglie attorno all'indice ritto.
– La corona, sì: santa! ma sgranane pure i chicchi quanto ti pare, se poi non ti dai ajuto da te!
E dice che tutti i signori con l'estate se ne sono andati in villeggiatura, chi qua chi là; per cui l'unica sarebbe d'andare in villeggiatura anche loro.
Alfreduccio però è titubante. Non si fida del Rosso. È cieco da tutt'e due gli occhi, con una barbetta di malato, pallido, gracile. Insomma, civilino. Palpa con le mani giro giro le tese del tubino che gli hanno regalato da poco, e ripete con voce piagnucolosa:
– Ma noi due soli?
– Noi due soli, – miagola il Rosso, rifacendogli il verso. – Ti sto dicendo che bisogna andare da Marco domattina.
(Marco è un mendicante di mia conoscenza, a cui ho pensato subito, guardando questi due mendicanti della stampa. Può stare benissimo in loro compagnia perché, se questi due sono disegno di maniera, quello, pur essendo vivo e vero, come ognuno può andare a vederlo e toccarlo seduto davanti la chiesa di San Giuseppe con una ciotolina di legno in mano, non è meno di maniera di loro, uguale del resto a tanti altri che fanno con arte e coscienza il mestiere di mendicanti.)
Ma Alfreduccio seguita a non fidarsi e domanda:
– E se Marco non vorrà venire?
– Verrà, se andrai a dirglielo tu. È una bella pensata. Tutto sta a sapergliela presentare, là, come se venisse in mente a te: «Marco, che stiamo più a fare in città? Tutti i signori sono andati via in villeggiatura».
– Marco, che stiamo più a fare in città? – prende a recitare sotto sotto Alfreduccio, come un ragazzo che voglia imparare la lezione.
Il Rosso si volta a guardarlo; stende una mano e gli stringe le gote col pollice e il medio, schiacciandogli contemporaneamente con l'indice la punta del naso.
– Bello! – gli grida. – Mi fai il pappagallo?
Alfreduccio si lascia fare lo sfregio senza protestare.
E l'altro soggiunge:
– La carità, caro mio, chi te la fa? La gente allegra per levarti dai piedi. Chi soffre, non te ne fa; non compatisce: pensa a sé. Anche con una piccola sventura, crede alla sua e non vede la tua; e se lo vuoi fare capace, s'indispettisce e ti volta le spalle. Là là, in villeggiatura. Se Marco ti domandasse, come tu a me: «Ma noi due soli?» tu perché non ti fidi di me, lui perché non si fida di te; e tu allora glielo dici: «C'è anche il Rosso che ha tre piedi e sa le vie della campagna». Benché lui, Marco, di'