Il gigante lo raggiunse con tre lunghi passi, sorprendendolo per la sua velocità, poi gli diede un manrovescio e lo mandò a volare all’indietro.
Thor colpì violentemente il terreno, e prima di riuscire a girarsi, il gigante era su di lui e lo sollevava sopra la propria testa con due mani. Lo scaraventò e l’esercito di McCloud gridò trionfante mentre Thor volava per cinque metri buoni prima di atterrare pesantemente a terra e rotolare nella polvere. Thor si sentiva come se gli si fossero spezzate tutte le costole.
Sollevò lo sguardo e vide che il gigante gli stava ancora per avventarglisi contro, e questa volta non c’era nulla che potesse fare per difendersi. Qualsiasi potere avesse, si era esaurito.
Chiuse gli occhi.
Ti prego Dio, aiutami.
Mentre il gigante si scagliava contro di lui, Thor iniziò a sentire nella sua mente un ronzio sommesso. Il suono crebbe sempre più e presto divenne un ronzio proveniente dall’esterno, dall’universo. Sentì una strana sensazione mai provata prima, iniziò a sentirsi in perfetta sintonia con ogni materia e tessuto, con l’aria, con il dondolare degli alberi, l’ondeggiare di ogni filo d’erba. Sentì quel sonoro ronzio in mezzo a tutto ciò e poi come se lui stesso lo stesse assorbendo da ogni angolo dell’universo, raccogliendolo nella sua mente.
Aprì gli occhi e udì il tremendo ronzio sopra la sua testa. Sollevò lo sguardo e con sua immensa sorpresa un enorme sciame di api si materializzò nel cielo. Provenivano da ogni angolo, e quando sollevò le mani sentì che era lui a guidarle. Non aveva idea di come lo stesse facendo, ma sapeva che le stava dirigendo.
Ruotò le mani verso il gigante e vide lo sciame di api oscurare il cielo e buttarsi poi in picchiata contro l’energumeno ricoprendolo completamente. L’uomo sollevò le mani e si sbracciò, poi gridò mentre lo avvolgevano, pungendolo migliaia di volte fino a farlo cadere sulle ginocchia e portandolo ad accasciarsi terra, morto. Il terreno tremò per l’impatto con il suo corpo.
Poi Thor diresse le mani contro l’esercito di McCloud: i guerrieri erano a cavallo e guardavano la scena con orrore. Iniziarono a girarsi per fuggire, ma nessun secondo fu loro concesso perché lo potessero fare. Thor girò i palmi verso di loro e l’esercito di api lasciò il gigante e iniziò ad attaccare i soldati.
L’esercito di McCloud gridò di paura e tutti insieme si girarono e partirono al galoppo, punti innumerevoli volte dallo sciame. Presto il campo di battaglia fu completamente vuoto e loro scomparvero il più rapidamente possibile. Alcuni non riuscirono a dileguarsi in tempo e caddero uno dopo l’altro disseminando il terreno di cadaveri.
Mentre i sopravvissuti continuavano a galoppare, lo sciame li inseguiva da ogni parte del campo fino all’orizzonte e il forte ronzio si fuse con il suono tonante degli zoccoli dei cavalli e con le grida terrorizzate degli uomini.
Thor era senza parole: nel giro di pochi minuti il campo di battaglia era diventato vuoto e silenzioso. Tutto ciò che rimaneva erano i lamenti dei feriti che giacevano a terra. Thor si guardò in giro e vide i suoi amici, esausti e con il fiatone: sembravano ben ammaccati e ricoperti da leggere ferite, ma stavano bene. A parte, ovviamente, per i tre ragazzi che non conosceva e che erano morti.
Si udì un forte boato all’orizzonte e Thor si voltò per vedere l’esercito del Re che risaliva velocemente la collina, galoppando loro incontro condotto da Kendrick. In pochi minuti arrivarono e fermarono i cavalli davanti a Thor e ai suoi amici, gli unici sopravvissuti in quel campo di sangue.
Thor era scioccato e li fissava, mentre Kendrick, Kolk, Brom e gli altri smontavano da cavallo e gli si avvicinavano lentamente. Erano accompagnati da decine di membri dell’Argento, tutti valorosi guerrieri dell’Esercito del Re. Videro Thor e gli altri lì da soli, vittoriosi nel mezzo del campo di battaglia ora ricoperto da centinaia di cadaveri dell’esercito di McCloud. Thor vide i loro sguardi colmi di meraviglia, di rispetto, di stupore. Glielo si leggeva negli occhi. Era ciò che aveva desiderato per una vita intera.
Era un eroe.
CAPITOLO NOVE
Erec galoppava sul suo cavallo lungo la Strada del Sud, avanzando più veloce che poteva e facendo del suo meglio per evitare le buche della strada nel buio della notte. Non si era mai fermato da quando aveva sentito del rapimento di Alistair, di lei venduta come schiava e portata verso Baluster. Non riusciva a smettere di biasimarsi. Era stato sciocco e ingenuo a fidarsi di quel locandiere, a credere che avrebbe mantenuto fede alla parola data e che avrebbe rispettato gli estremi del loro accordo liberando Alistair dopo la sua vittoria nel torneo. La parola di Erec era il suo onore e aveva creduto che anche quella degli altri fosse sacra. Era stato uno stupido errore. E Alistair ne aveva pagato il prezzo.
A Erec si spezzava il cuore a quel pensiero. Spronò il cavallo a galoppare più velocemente. Una donna così bella e raffinata, prima costretta a sopportare l’indegno compito di lavorare in una locanda, e ora venduta in schiava, nientemeno che nel mercato del sesso. Il pensiero mandava Erec su tutte le furie e non poteva fare a meno di sentirsi in qualche modo responsabile: se lui non fosse mai comparso nella sua vita, se non si fosse mai offerto di portarla via, forse il locandiere non avrebbe mai pensato a venderla.
Erec galoppava nella notte, il rumore degli zoccoli del suo cavallo rimbombava nel buio e gli riempiva le orecchie insieme al suono del suo respiro. Il cavallo era più che esausto ed Erec temeva che sarebbe potuto cadere a terra. Si era recato dal locandiere direttamente dopo il torneo e quindi non aveva avuto neanche una pausa, per cui era lui stesso esausto e sentiva che sarebbe potuto crollare a terra da un momento all’altro. Ma si sforzò di tenere gli occhi aperti, si sforzò di rimanere sveglio mentre cavalcava nel bagliore della luna, diretto verso sud, verso Baluster.
Erec aveva sentito raccontare di Baluster nel corso della sua vita, nonostante non ci fosse mai stato. Si diceva fosse un posto di gioco d’azzardo, oppio, sesso e qualsiasi altro vizio immaginabile nel regno. Era il luogo dove si riversavano da ogni parte dell’Anello i delusi e gli insoddisfatti per sfruttare ogni genere di oscuro divertimento conosciuto da mente umana. Quel luogo rappresentava l’esatto contrario di come era Erec. Lui non aveva mai giocato d’azzardo, e raramente beveva, preferendo trascorrere il suo tempo libero allenandosi e affinando le sue abilità. Non riusciva proprio a capire le persone che si dedicavano esclusivamente a pigrizia e bisboccia come facevano i frequentatori di Baluster. Andare in un posto del genere non era di buon presagio per lui. Non poteva venirne fuori niente di buono. Il pensiero di Alistair in quel luogo gli faceva male al cuore. Sapeva di doverla salvare in fretta e portarla lontano da lì, prima che le fosse fatto del male.
Quando la luna fu alta nel cielo e la strada si fece più larga e percorribile più agevolmente, Erec scorse il primo scorcio della città: l’innumerevole quantità di torce che ne illuminavano le mura la facevano apparire come un grande falò nel bel mezzo della notte. Erec non ne fu sorpreso: si diceva che i suoi abitanti stessero svegli a ogni ora della notte.
Spronò di più il cavallo e la città si fece più vicina fino a che si trovò ad attraversare un piccolo ponte di legno, sorvegliato da una sentinella mezzo addormentata che balzò in piedi quando Erec le passò accanto in fretta e furia. La guardia lo richiamò: “EHI!”
Ma lui neanche rallentò. Se l’uomo si fosse sentito tanto sicuro da inseguirlo – cosa che lui dubitava molto – allora si sarebbe assicurato che fosse l’ultima cosa che facesse.
Erec passò attraverso l’ampio cancello aperto che dava accesso alla città, costituita da una piazza circondata da basse e antiche mura di pietra. Quando fu entrato percorse le strette strade, perfettamente illuminate, fiancheggiate com’erano da torce. Gli edifici erano costruiti uno accanto all’altro e donavano alla cittadina un senso di chiusura quasi claustrofobica. Le strade erano completamente affollate di gente e sembravano quasi tutti ubriachi: barcollavano da una parte e dall’altra, gridavano a voce alta, scherzavano e si prendevano in giro. Era come una grande festa. E ogni edificio era adibito a taverna o sala da gioco.
Erec sapeva che si trovava