R. H. Budden
Fra le più care e tipiche figure dei pionieri dell’alpinismo italiano, che ormai col volgere degli anni, come natura vuole, vanno scomparendo, una più delle altre pareva voler sfidare impavida le bufere della vita e mantenersi vegeta sulla breccia fra l’ammirazione dei vecchi per l’ardore giovanile con cui combatteva, dei giovani per la tenacia colla quale sosteneva alti i più puri ideali di tutta la sua esistenza.
Ma ad un tratto quella maschia figura che da ben quarant’anni viveva fra noi è scomparsa; quel roseo viso, sorridente sempre, incorniciato fra due candide fedine non è più che un dolce ricordo; quello sguardo aperto, vivace e profondo, che rispecchiava tutta la bontà d’un animo elevato, d’un cuore impareggiabile si è spento; quella tempra gagliarda, infaticabile, violentemente si è infranta, lasciando inciso nei monti con indelebili caratteri il suo nome, che ogni montanaro, ogni alpinista d’Italia venerava, lasciando immenso cordoglio nell’animo d’una lunga e numerosa schiera di poverelli che aveva beneficati.
Riccardo Enrico Budden era nato il 19 maggio 1826 in Stoke Newington (Londra), ove trascorse i primi anni della sua vita, e, rimasto orfano giovanissimo ancora, veniva posto in collegio, dapprima a Bonn e più tardi a Parigi.
Compiuta ch’Egli ebbe la sua educazione, libero di sè, ricco di censo, dopo breve permanenza in Francia, cominciò i suoi viaggi attraverso l’Europa, non ritornando in patria che di tempo in tempo e per non lunghi soggiorni.
Fu a Nizza, italiana allora, che circa quarant’anni or sono si innamorò del bel cielo tirreno, s’appassionò alla patria nostra che più tardi visitava e studiava in ogni sua parte.
A Genova prima, poi a Torino pose sua dimora, quindi in Svizzera e nuovamente in Francia, di dove il ricordo delle città italiane lo richiamava fra noi. Traslocata a Firenze la capitale, Egli pure vi si recava e dalle sponde dell’Arno seguiva a Roma le sorti del nostro paese, ch’ei già allora considerava come sua seconda patria. Non rimase mai gran tempo nella medesima regione, chè la sua inesauribile attività lo spingeva or in questa or in quella, finchè, innamoratosi dell’ospitalità semplice e cordiale che sovente s’incontra in tutte le classi del vecchio Piemonte, ch’Egli chiamò «paese del franco parlare», si stabilì in Torino, ove già più volte aveva abitato.
Nei primi anni ch’Egli era fra noi, come praticavano non pochi suoi connazionali, si recò a visitare le nostre montagne e rimase profondamente colpito dalle innumerevoli bellezze della Valle di Aosta, sì che ad essa più che ad altre valli italiane rivolse tutte le sue cure, dedicò tutte le sue forze, facendosi promotore di quei miglioramenti che valessero ad aumentarne la prosperità ed a renderla più gradita agli stranieri. La percorse in ogni suo angolo e, trovatala deficente di strade e di alberghi, si fece tosto promotore d’una prima sottoscrizione onde raccogliere fondi per abbellire Courmayeur, chiamata, per la sua posizione, a rivaleggiare con altre importanti stazioni alpine d’oltr’alpe.
Fu questa nobile iniziativa che lo portò a conoscere il nostro Club. Egli si era rivolto alle Autorità della valle, offrendo un concorso di lire 500 come primo fondo della sottoscrizione che voleva iniziata a tal fine, e quelle non risposero, parendo forse a loro strana l’idea di quest’inglese entusiasta dei monti. Ma Egli non si sgomentò; insistette, ne parlò con amici e venne consigliato di rivolgersi al Club Alpino di Torino, costituitosi appunto due anni prima.
Fortuna volle s’incontrasse in G. B. Rimini ed in Bartolomeo Gastaldi, i quali, intuito l’uomo, non solo accolsero con entusiasmo la sua proposta, ma lo fecero inscrivere socio del Club.
Da quel giorno può dirsi che dedicò intiera la sua vita pel bene della nostra istituzione, e tanto fece colle opere, col consiglio, coll’esempio e con generose elargizioni, da meritarsi il titolo di Apostolo dell’Alpinismo.
Recatosi nuovamente a Courmayeur, riuscì a vincere le mille diffidenze che osteggiavano l’attuazione del suo progetto, a poco a poco convinse i più restii, mentre intanto sollecitava dagli alpinisti inglesi l’invio di somme in aiuto dell’opera sua. E nel maggio del 1868, lieto della riuscita che prometteva, in una lettera da Courmayeur annunziava a Bartolomeo Gastaldi che l’incoraggiamento del Club Alpino non era rimasto senza frutti, avendo quel Consiglio Comunale votate e fatte eseguire diverse opere, quali la strada al Pavillon di Mont-Frety, l’impianto di viali, il miglioramento di parecchie strade mulattiere, ecc., e che i paesi vicini spinti dall’esempio accennavano essi pure a mettersi sulla buona via.
Disgraziatamente, iniziate da poco le opere, il fallimento della Cassa di Risparmio d’Ivrea e sua succursale di Aosta, presso la quale i fondi erano stati depositati, ne inghiottì gran parte, rendendo impossibile l’attuazione del progetto, se Egli, per dar nuova spinta alla sottoscrizione, non avesse versate alla Sede del Club altre lire 500.
Erano allora i tempi d’oro dell’alpinismo, vasto campo di terreno vergine da esplorare, con tempre gagliarde, innamorate della natura, del bello, che s’accingevano con ardore all’impresa.
Non si conoscevano ancora tutte le comodità della vita alpina d’oggi: con un semplice bastone in mano, un sacco sulle spalle, un po’ di pane in tasca, s’avviavano al monte quei pionieri dell’alpinismo, ed Egli ricordava con piacere quando cogli amici suoi, il canonico Carrel e gli abati Gorret e Chanoux, G. B. Rimini e tanti altri iniziati al culto della natura, se ne iva peregrinando fra i monti.
Le sue gite sono innumerevoli, ma Egli non dà relazione che di quelle compiute nei primi tempi, quando era necessario spronare altri a pubblicare le loro impressioni. Nè ha la pretesa di fare scoperte, ma dice che scrive soltanto per far conoscere le nostre valli, poichè disgraziatamente la maggior parte dei viaggiatori «non lasciano volentieri la via solita per vedere nuovi paesi, studiare i costumi e le particolarità delle popolazioni e godere delle abitudini semplici, dei prezzi moderati che pratica tanta povera gente, che si trova per così dire onorata da tali visite inaspettate,» se non vi sono spinti od attratti da altri.
Nelle sue relazioni, ricche di dati interessanti sui costumi o sulle leggende delle valli visitate, dà soventi ragione dei nomi delle diverse località ed i fatti più semplici gli lasciano campo a profonde riflessioni. Al suo occhio nulla sfugge delle scene imponenti che si ammirano sulle montagne, la cui solitudine lo colpisce profondamente e fra le quali è lieto di trovarsi in mezzo a tanta brava gente non corrotta dalla civiltà moderna. Sono briosi aneddoti che infiorano tratto tratto e rendono piacevole la lettura dei suoi scritti, dai quali traspare completa un’anima d’artista innamorato delle superbe bellezze del quadro che ha dinanzi.
Non trascorreva mai una stagione intiera in questo piuttosto che in quel distretto alpino; quel medesimo sentimento che lo spingeva di città in città, quel bisogno di studiare e vedere sempre nuove cose, anche in montagna gli faceva compiere lunghe corse, visitare parecchie valli, passando sempre per nuovi valichi. Così, ad es., lo vediamo nel 1867 da Chamonix portarsi al Piccolo S. Bernardo, di dove si reca ad ammirare il gruppo del Rutor; poi discendere a Courmayeur e dopo breve permanenza, per Liverogne, Valsavaranche ed il Colle del Nivolet portarsi a Ceresole Reale, salire la Bellagarda ed altre punte, ritornarsene pel Nivolet a Valsavaranche, ove lo troviamo sulla Bioula e sul Colle del Lanzon che discende a Cogne. Da Cogne lo attrae quello splendido belvedere che è il Pousset, lo attraggono i valloni circostanti; ma anche questi solo per qualche giorno, poichè nuovamente s’avvia per la Finestra di Champorcher a Bard, a Pont St.-Martin, a Gressoney St.-Jean. Qui trova il primo châlet albergo costruito nelle valli italiane dal sig. Linty e ciò lo rallegra, ma neppure ciò ha il potere di trattenerlo a lungo; dopo pochi giorni pel Colle di Valdobbia passa a Riva, a Varallo, e sempre pei monti a Biella e di nuovo a Pont St.-Martin, ad Aosta e pel Gran S. Bernardo a Ginevra.
I disagi della vita di montagna per lui sono nulla, il suo animo buono, generoso tutto dimentica e s’entusiasma, quando ode dire da chi Egli compensa largamente per qualche servizio resogli: «Monsieur, me donne trop, cela ne vaut pas tant», e non sogna che di ritornare presto fra quella gente.
Nel 1868 lo troviamo a Courmayeur, a Varallo, ad Alagna, sempre traversando colli; poi sul Monte Generoso e di là per Verona, a Neumarkt, fra le Dolomiti, a Predazzo, a Paneveggio, sul Passo di Vallès, a Forno di Canale, ad Agordo e ritornare pel Passo di S. Pellegrino di nuovo a Neumarkt, di dove prosegue per Innsbruck, Monaco, ecc. ecc.
Ed in ogni suo viaggio