«Sì» rispose l’alieno con fare cordiale «mi chiamo Korih A05. Generale A05.»
Un po’ intimidito domandai: «Ti devo chiamare Generale A05?»
«Per te sono A05 e sono disponibile ad altre domande.»
«Come fanno i tuoi circuiti a durare così a lungo?» gli chiesi sempre più curioso.
«Non durano così a lungo, sono sostituiti se entrano in avaria. Disponiamo di elementi di ricambio e di bravi robot tecnici addetti all’assemblaggio» ciò detto, salutò militarmente piegando il braccio verso il petto e si allontanò da noi forse per i suoi impegni di lavoro.
Discutemmo a lungo tra noi su quanto avevamo appreso da quello straordinario essere e della nostra destinazione. Parlammo della destinazione ma a nessuno venne in mente di menzionare possibili scenari da incubo come a nessuno venne in mente possibili problemi connessi alla navigazione. Perché? Non avevamo esperienza, non potevamo immaginare situazioni al cardiopalma. E invece qualcosa accadde...
Ad un certo punto, ricordo che avvertii qualche scossone. Non ci feci caso e così non notarono niente di insolito gli altri terrestri ma gli scossoni si ripeterono, a volte violenti a volte appena percepibili. Che cosa stava accadendo? Mentre ci interrogavamo senza riuscire a capire il motivo, ecco che giunse, nel locale dove eravamo reclusi, un alieno. Ci parlò con un doppio linguaggio, quello alieno e quello in traduzione.
«Stiamo attraversando una tempesta di meteorite.»
«Siamo in pericolo?» esclamai spaventato.
«Direi che la situazione è seria.»
Un terrestre domandò: «Ma da dove provengono?»
L’androide rispose: «Dai resti di un piccolo pianeta esploso.»
«Ma non possiamo cambiare rotta?» propose un francese.
L’alieno eluse la domanda e si limitò a rassicurarci: «Abbiamo uno scudo deflettore in grado di respingere con onde antigravitazionali le masse più piccole in linea di collisione.»
«E i meteoriti più grandi?» chiese sempre il francese.
Non ci fu risposta e da quel silenzio capimmo la reale portata del pericolo. L’alieno si allontanò ma poco dopo, continuando la situazione grave degli scossoni all’Ammiraglia, si presentarono davanti a noi quattro alieni che ci invitarono a seguirli. Ci assegnarono un altro vano dell’astronave, completamente chiuso da pareti con spessi vetri e, nel chiuderci dentro, azionarono dei meccanismi di mantenimento.
«Questa è la camera di sopravvivenza» ci spiegò uno di essi «così chiamata perché provvista di ossigeno per organismi viventi e in grado di mantenervi in vita in caso di grave impatto da meteoriti. Noi non respiriamo, quindi non corriamo pericolo in caso di squarci all’aeronave.»
«Riuscirete a riparare gli eventuali danni da impatto?» chiesi preoccupato.
Uno degli androidi rispose: «Possiamo. Abbiamo macchine che possono intervenire all’esterno della struttura...»
La mia amica Gilda si informò: «Quando ci farete uscire da questa. .. come la chiamate? Camera di sopravvivenza?»
«Passato il pericolo» rispose uno degli alieni.
Quando se ne furono andati, qualcuno si rassegnò al peggio, altri si disperarono, soltanto pochi manifestarono uno schietto ottimismo. Tra questi, il professore tedesco.
Fu lui a infonderci coraggio con queste parole: «Amici miei, compagni di sventura... anche se leggo nei vostri sguardi, nella vostra mente uno stato di comprensibile agitazione, nonostante tutto vi invito a riflettere. Questi alieni sono troppo intelligenti per farsi fregare da quattro pietre impazzite, quindi, ne sono certo, sopravviveremo.»
Purtroppo però il nostro ottimismo, o almeno il tentativo di sdrammatizzare gli eventi, non fu sufficiente. Comunque salvammo la pelle. Ecco come andarono le cose...
Le meteore picchiavano e picchiavano contro lo scafo della gigantesca Ammiraglia con tanta violenza da rischiare di sfondarla. E questo accadde realmente. Lo capimmo nell’udire un forte suono intermittente risuonare all’interno dell’Ammiraglia, poi una grande confusione di androidi che andavano e venivano, linguaggi concitati e incomprensibili. Sembrava di trovarsi su di un transatlantico che stesse affondando con la relativa confusione generale.
Io, osservando tutto quell’andirivieni concitato, dissi ai miei compagni, angosciato: «È fatta, siamo fregati» poi chissà perché cominciai a gridare, cercando di attirare l’attenzione dei soldati-robot.
Uno di essi mi notò e si avvicinò alla camera di sopravvivenza, mi fece segno di indossare una maschera d’ossigeno attaccata alla parete con un lungo tubo e di girare verso destra la manopola d’ossigeno, poi rivolgendosi agli altri, disse: «Indietro, indietro!»
Istintivamente tutti indietreggiarono e l’alieno manovrò attraverso un pannello di comandi posto sulla parete esterna alcuni pulsanti. Una porta a vetri discese dal soffitto e isolò tutti ad eccezione di me che avevo indossato la maschera d’ossigeno. A quel punto si aprì la porta esterna. Respiravo con quell’attrezzo attaccato a un tubo ma non mi potevo muovere. L’alieno mi fece segno di pazientare, poi da un armadio prese una bombola d’ossigeno e una maschera con boccali e mi fece segno di indossarla. Trattenni il respiro e mi separai da quella di emergenza fìssa per indossare quella individuale, poi gli chiesi con apprensione: «Che sta succedendo?»
«Ti porto con me, seguimi nella cabina comandi. Lì vedrai, così da poter informare i tuoi simili.»
Lo seguii senza più aggiungere nulla. Ricordo soltanto il battito del mio cuore impazzito e... nient’altro. Mi portò nella cabina comandi e mi fece sedere su un seggiolino dallo schienale alto, di metallo, munito di braccioli. Mi guardai attorno. C’erano alieni dappertutto, il locale era molto grande e guardando in una precisa direzione, come uno schermo cinematografico vidi l’esterno dell’astronave. Mentre osservavo rapito lo spazio profondo, sentii lo scatto di una cinghia metallica chiudersi sul mio torace. Capii di essere stato legato.
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