In questa grande vicissitudine politica, abbiamo il vantaggio di poter confrontare fra loro le relazioni di Villehardouin e di Niceta, i giudizj opposti che il Maresciallo di Sciampagna e il Senatore di Bisanzo portavano97. Parrebbe a primo aspetto che le ricchezze di Costantinopoli non avessero fatto altro cambiamento fuor quello di passare da una nazione ad un'altra, e che il danno e il cordoglio de' Greci dal vantaggio e dalla gioia de' Latini stati fossero pareggiati; ma nel funesto giuoco della guerra non è mai eguale alla perdita il guadagno, e a petto delle calamità sono deboli i godimenti. Illusorio e passeggiero fu il giubilo de' Latini. Intanto che i Greci deplorando l'irreparabile scempio della loro patria, vedeano rincalzati i loro affanni dallo scherno e dal sacrilegio de' vincitori. Ma di qual profitto furono a questi i tre incendj che una sì gran parte de' tesori e degli edifizj di Bisanzo distrussero? Qual vantaggio ebbero dalle cose che infransero, o fecero tronche perchè non le potevano trasportare? Che fruttò ad essi l'oro nel giuoco e nelle crapule prodigalizzato? Quante preziose suppellettili i soldati vendettero a vile prezzo per non conoscerne il valore, o perchè impazienti di spacciarsene; talchè sovente il più abbietto mariuolo greco tolse ad essi il prezzo della vittoria! Fra i Greci di fatto sol quella classe di gente che non potea perdere nulla, vantaggiò alcun poco nella pubblica calamità. Tutti gli altri a deplorabilissimo stato furon ridotti. Le sventure di Niceta ce ne porgono un saggio. Incenerito, per effetto del secondo incendio, il magnifico palagio ove dianzi dimorava, questo misero Senatore, seguìto dalla famiglia e dagli amici, si riparò ad una picciola casa che in vicinanza alla chiesa di S. Sofia tuttora rimanevagli. Fu alla porta di questa casa, ove il mercatante veneziano, vestito da soldato, diede a Niceta il modo di salvare con una precipitosa fuga la castità della figlia, e i miseri avanzi de' posseduti tesori. Questi sciagurati fuggitivi già avvezzi a nuotare nella abbondanza, partirono a piedi nel cuore del verno. La moglie di Niceta era incinta; pur furono costretti, essendone disertati gli schiavi, ella e il marito a portar sugli omeri le proprie bagaglie. Le donne di questa famiglia poste in mezzo alla comitiva, venivano esortate a nascondere la propria avvenenza, col bruttar di fango il volto, che dianzi erano use ad imbellettarsi; perchè ciascun passo le avventurava ad insulti e pericoli; ma le minacce degli stranieri, lor pareano anche meno insopportabili dell'insolenza de' plebei, che divenuti eguali ad essi si riguardavano. Finalmente respirarono con più sicurezza a Selimbria, città lontana quaranta miglia da Costantinopoli, e che fu termine di quel doloroso pellegrinaggio. Cammin facendo, incontrarono il Patriarca, solo, mezzo ignudo, a cavallo ad un asino, e ridotto a quell'appostolica indigenza, che se fosse stata volontaria, avrebbe potuto non andar priva di merito. In questo medesimo tempo i Latini, trascinati da licenza e spirito di fazione, spogliavano e profanavano le sue chiese, e strappate dai calici le perle e le gemme che li fregiavano, ad uso di nappi convivali sen valsero. Giocavano e gavazzavano, seduti a quelle tavole, ove effigiato vedeasi Cristo co' suoi appostoli: calpestavano co' piedi i più venerabili arredi del culto cristiano. Nella chiesa di S. Sofia, i soldati fecero in brani il velo del Santuario, per torgli la frangia d'oro; buttarono in pezzi, e se lo spartirono, l'altar maggiore monumento dell'arte e della ricchezza de' Greci; stavano in mezzo alle chiese i muli e i cavalli per caricare sovr'essi i fregi d'oro e d'argento che staccavano dalle porte e dalla cattedra del Patriarca; e quando questi animali si curvavano sotto il peso, gl'impazienti conduttori ne li punivano coi lor pugnali, e di quel sangue rosseggiava il pavimento del tempio. Una meretrice andò ad assidersi sullo scanno del Patriarca, e questa figlia di Belial, dice lo Storico, cantò e ballò nella chiesa per porre in derisione gl'inni e le processioni degli Orientali: l'avidità condusse indi costoro nella chiesa degli Appostoli, ove stavano le tombe de' Sovrani; al qual proposito si vuol far credere, che il corpo di Giustiniano, sepolto dopo sei secoli, venne trovato intatto e senza dare alcun segno di putrefazione. I Francesi e i Fiamminghi correvano le strade della città, avvolti i capi in cuffie di veli ondeggianti, e vestiti di abiti sacerdotali variamente dipinti, e de' quali persin bardamentavano i proprj cavalli: la selvaggia intemperanza delle loro orgie98, insultava la fastosa sobrietà degli Orientali, e per deridere le armi più adatte ad un popolo di scribacchini e studenti, si trastullavano con penne, calamai, carta alla mano; nè s'accorgevano certo che gli strumenti della Scienza, adoperati dai moderni Greci, divenivano per essi deboli ed inutili quanto quelli del valore lo erano stati.
Nondimeno l'idioma che parlavano i Greci e l'antica rinomanza, sembravano attribuir loro un qualche diritto di schernire l'ignoranza dei Latini e i deboli progressi del loro ingegno99, e quanto ad amore e rispetto per le Belle Arti, la diversità fra le due nazioni più manifesta ancor si mostrava. I Greci serbavano tuttavia con venerazione i monumenti de' loro antenati che imitar non sapevano; nè noi possiamo starci dal partecipare al dolore e all'ira di Niceta, a quella parte di racconto ove narra la distruzione delle statue di Costantinopoli100. Abbiam già veduto nel corso della presente opera come il dispotismo e l'orgoglio di Costantino, avessero incessantemente contribuito ad abbellire la sua nascente Metropoli. E Dei ed Eroi sopravvissuti alla rovina del Paganesimo, e molti resti di un secolo più fiorente, ornavano ancora il Foro e l'Ippodromo. Dalla descrizione pomposa e ricercatissima, che di parecchi fra questi monumenti ne ha lasciata Niceta101, sonomi studiato di ritrarre il seguente specchio delle cose più meritevoli d'intertenere una erudita curiosità. I. Le immagini de' condottieri dei carri,