VI
E il tempo passò: venne l'autunno e venne l'inverno. Il ricorso di Costantino, come accade sempre, fu respinto; ed egli una notte fu legato ad una catena che lo univa ad un uomo a lui sconosciuto, e venne messo in fila con altri uomini, a due a due, vestiti di tela, taciturni, simili a bestie mansuete, resi tali da una invisibile potenza. Essi andavano. Dove? Non sapevano dove. Tacevano e non sapevano perchè tacevano. Li condussero al mare, li fecero salire su un lungo piroscafo nero, li chiusero in una gabbia. Sempre come bestie. Intorno il mare di cristallo verde-cupo rifletteva i fari di rubino e di smeraldo, le cui colonne di luce slanciavansi lontane, serpeggiando fra le onde come drappi fosforescenti di perle verdi e sanguigne. E sopra, sopra l'infinito anello del mare, il cielo di cristallo azzurro-cupo incurvavasi come una immensa valle silenziosa, tutta fiorita di stelle gialle. Sulle prime Costantino non provò impressioni disgustose. Egli andava verso l'ignoto, verso il suo crudele destino; ma aveva in fondo al cuore la certezza che verrebbe presto liberato, e non disperava mai. L'andirivieni del personale di bordo, il rumore delle catene, il primo ondular del piroscafo, gli diedero un'impressione di curiosità fanciullesca. Non aveva mai viaggiato in mare. Da ragazzo scorgendo all'orizzonte la linea cinerea del Mediterraneo, talvolta sfiorata dall'ala delle vele, egli, ritto fra i cespugli selvaggi della montagna natìa, aveva sognato di attraversare quelle onde lontane, verso paesi ignoti, verso le città d'oro del continente. Egli sapeva leggere e scrivere; nel suo libro c'era dipinto S. Pietro di Roma, e nella parte riguardante la Storia Sacra un'incisione rappresentava l'antica Gerusalemme.
Ah, Gerusalemme! Verso Gerusalemme, che secondo lui era la città più grande e bella del mondo, avrebbe voluto viaggiare, allora, quando ritto fra i cespugli di monte Bellu guardava la linea cinerea del Mediterraneo. Ora egli attraversava il mare, ma come diversamente dal suo sogno! Eppure il concetto che egli conservava ancora di Gerusalemme era così lusinghiero, che se l'avessero portato là, anche legato e condannato, ad espiare la pena, si sarebbe sentito felice.
E il piroscafo rullava, ondulava, andava, tra un fragore incessante di torrente. I condannati bisbigliavano fra loro, alcuni scherzavano e ridevano.
Costantino si assopì e sognò, come sempre gli avveniva, di trovarsi a casa sua. L'avevano liberato da poco, – egli sognava, – ed era tornato a casa senza far sapere nulla a Giovanna, preparandole così una sorpresa di indicibile gioia. Ella diceva: – ma questo è un sogno, questo è un sogno! – Le spese di giustizia avevan portato via di casa tutto, tutto, anche il letto. Non importava niente, però. Tutti i beni del mondo erano nulla in confronto alla gioia della libertà, alla felicità di vivere con Giovanna e con Malthineddu. Però Costantino era stanco, stanco, e s'era coricato nella culla del bambino, e questa culla ondulava da sè, sempre più forte, sempre più forte. Giovanna rideva e diceva: – Bada che cadi, Costantino mio, agnello caro! – e la culla ondulava ancora più forte.
Sulle prime anch'egli si mise a ridere, ma ad un tratto si sentì male, provò un capogiro e cadde dalla culla inclinatasi fino al suolo. Si svegliò col mal di mare. Il mare era mosso; il piroscafo saliva e scendeva da montagne d'acqua; l'acqua saltava fino sopra i passeggieri di terza.
Tutti i condannati soffrivano: alcuni cercavano ancora di scherzare, altri imprecavano; uno, il compagno di Costantino, un uomo dal viso giallo sottilissimo, gemeva come un bambino.
– Oh, – diceva col capo penzoloni, ansante e spaurito, – io sognavo di essere a casa, ed ora… ed ora!.. San Francesco bello, abbiate pietà di me…
Costantino, nonostante l'angoscia fisica e morale che provava, ebbe pietà del compagno.
– Abbi pazienza, fratello caro, anche io sognavo d'essere a casa…
– Ah, mi pare che mi sfugga l'anima, – disse un altro. – Cosa diavolo ha questo bastimento? pare balli il ballo sardo! – e taluni ebbero forza di ridere per il paragone.
La tempesta proseguì. In certi momenti a Costantino pareva di morire, e aveva paura della morte, ma nello stesso tempo sentiva un dolore immenso della vita.
La sua anima parve imbeversi del liquido amaro ch'egli cacciava dallo stomaco convulso. Neppure nell'udire la sentenza di condanna egli aveva provato una disperazione simile. Cominciò anch'egli a gemere ed imprecare, stringendo i pugni e contorcendo le dita dei piedi gelati.
– Che tu possa morire così, come muoio io, cane omicida che mi hai rovinato… – diceva; e dai suoi occhi stillava lo stesso liquido amaro che gli inondava la bocca e tutta l'anima.
Verso l'alba la tempesta cessò; ma Costantino, anche dopo passatogli il male, non ritrovò pace; gli pareva lo avessero bastonato a morte, e tremava di freddo, di debolezza, di paura.
Il piroscafo non si fermava mai: oh, si fosse fermato almeno un momento! Un momento di tregua, pareva a Costantino, sarebbe bastato per ridonargli le forze smarrite, ma quel continuo procedere, quel continuo rullìo e quel continuo fragore di onde violentemente infrante, gli comunicavano un continuo tremore di convulsione. Cammina e cammina, passarono lunghe ore di angoscia, ritornò la notte: il compagno dal viso giallo sottile si lamentava sempre, dando a Costantino una irritazione angosciosa. Finalmente egli potè assopirsi e, cosa strana, tornò a sognare lo stesso sogno della notte prima; però questa volta Giovanna era corrucciata, e la culla ondulava quasi dolcemente. Quando Costantino si svegliò, il piroscafo pareva muoversi appena; nel gran silenzio dell'ora antelucana udì una voce dire al di fuori:
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