Di Vostra Eccellenza
Aha! mi sento riavere. Mi è costata fatica, ma pure l'ho messa insieme. Eh! quando mi picco, mi picco. Ho fatto più d'un naturalista, quando da pochi frammenti d'ossa ricompone in un insieme perfetto la struttura d'un corpo qualunque. Sì, ho fatto più d'un notomista; – il corpo è una cosa certa, e definita; – lo spirito è vario, incerto, e mobilissimo. Son contento come una pasqua! contento come un sonettista quando ha trovato una bella chiusa! Sì, ne son contento, ne vado superbo; – confrontiamo la mia coll'originale, e scommetto che non ci corre una sillaba.
Ma va, che l'ho fatta bella! Un po' col rimettere insieme la lettera, un po' col compiacermene, il tempo è trascorso, e il mio Signore ha scritto le rimanenti, ed ora v'è sopra a calcare il sigillo. Ma va, che l'ho fatta buona! e adesso come si stilla? è una rottura, che non si accomoda; – chi è che sappia leggere una lettera già sigillata? Potessi averla nelle mani, farei l'estremo di mia possa; – ma vàlle a toccare, se ti riesce! Eccole là! io magari le toccherei! – ma il Signore non ci è per nulla in questo mondo? Eh! non c'è rimedio! eccole là! – il morto è sulla bara; – son quattro giuste giuste; – posso sfogarmi a leggere la sopraccarta, mercè delle lettere lunghe un mezzo dito: – basta! è meglio poco che nulla; – eccole là! son quattro in fila, nè più nè meno; si leggono come di giorno; – la prima al Marchese, l'altra al Ministro, la terza all'Arciprete, la quarta alla Contessa. Poffare! si vede bene che al Signore è già venuta a noia la prigione, che vuole uscirne per fas e per nefas. Tutto vien messo in moto, tutto a contributo, per uscir di prigione; – la toga, e la spada; lo scrigno, la cantina, e la donna. – In prigione ci hanno a stare i poveri e i matti. – Voi parlate come un libro, mio bel Signore. Sì, venite fuori, anch'io lo desidero; – così potrò vedere più da vicino i fatti vostri. Voi n'uscirete senz'altro, – avete troppe ragioni dalla vostra; – solamente quei titoli, che a profferirli soltanto fanno tremare i chiavistelli! Sì, mio bel Signore, voi n'uscirete, e presto; – io lo desidero anch'io, per voi, e per me.
Ma che sia quella carticina breve breve, elegante elegante, che il Signore guarda e riguarda, di sotto e di sopra, e a guardarla gli sfavillano gli occhi? Forse un biglietto da visita? Eh! giusto! è un billet doux, – è una cosa, che mi passa l'anima per non averla sentita. Scrivermi un billet doux sotto gli occhi e non poterlo sentire! Se ci penso un momento di più, addio cervello, addio tutto. Un billet doux! non vi par di dir nulla, un billet doux! Io che per leggere un billet doux non avrei quasi scrupolo di portarlo! Io, che, se potessi leggerli tutti, non vorrei far più altro; – lascerei tutto, il teatro, la taverna, la scienza, i crocchi, l'amore, i vizi e le virtù; – non mangerei, non dormirei, farei la vita d'un martire, mi ridurrei magro come un Cristo di Cimabue! Oh! se ci penso dell'altro, voi ne vedrete delle belle! – una e una due; – ma questa è più agra dell'altra; – questa, e l'affar dell'imposte mi fanno dubitare della mia buona stella.
Certo la mia buona stella in questi due casi si è portata male; – una cometa non poteva farmi di peggio; – e poichè ella ha preso la mala piega, stimerei prudenziale di levar le tende da questa strada onde non m'avesse a incogliere un qualche malanno più grave. Già l'ora è tarda; – saranno l'undici al tocco e non tocco, e non passa più un'anima. Tuttavia, se devo confessarmi giusto, me ne vado malvolontieri. Non so chi mi lega, ma ci starei tutta la notte. Ma zitto! sento salire una scala, – sento girar mollemente una chiave; vedete cosa vuol dire un minuto? Un minuto spesso decide di tutto; – spesso non ci è tesoro, che possa pagare il valor d'un minuto. – E chi sarà in un'ora sì tarda? – Oh bella! è il solito soprastante, colla solita voce, e colla solita frase:
– È permesso? si può passare?
– Appunto voi; passate, passate.
– Ho forse tardato troppo?
– No, siete venuto in tempo: ho finito in questo momento. Eccovi un mazzo di lettere; dimani a un'ora competente, che sieno tutte spedite. Non fate sbagli, vi raccomando; son cose che premono.
– Vossignoria non dubiti di nulla; conosco ad una ad una le persone a cui vanno, e senza adulazione posso dire, che Vossignoria non potrebbe esser meglio appoggiata; son persone che fanno e disfanno, e dopo non c'è nulla a ridire. Ella già non ha bisogno di tutto questo; – si vede bene l'equivoco; si vede bene che hanno preso un granchio, e non vorrei esser nei piedi di chi s'è preso un simile arbitrio. Specialmente quando lo saprà la Contessa, è capace di sputar fuoco. Io son vecchio di queste cose, e so come vanno a finire. Alberghi come questi non sono per la gente par suo. Quando io la vidi arrivare, trasecolai, credetti dì travedere. Si figuri, son quarant'anni che faccio il mestiere! si figuri, se non conosco un uomo alla cera; appena lo vedo, comprendo subito di quel che si tratta; di questo posso vantarmene. Stia allegra Vossignoria; – riposi bene; – se stanotte ha bisogno, non faccia che chiamare; io dormo qui vicino, e son sempre all'erta.
– Non andate anche via. Ho un'altra commissione da darvi. Vi siete già scordato l'affare, di cui vi ho parlato stamani?
– Perdoni Vossignoria, sono uno smemoriato, però mi ricordo di tutto. Il numero, mi pare, 1613?
– Certamente, e dev'essere un palazzo con due riuscite. Eccovi la letterina; fate che recapiti con bel garbo. Già non ci andrete voi?
– Eh! diavolo! che mi crede ammattito affatto? Son uomo di mondo anch'io, e nessuno mi deve insegnare. Non pensi, si lasci servire. Ci mando la mia Rosina, e la cosa vien fatta d'incanto. Ha null'altro da comandarmi?
– Null'altro per ora.
– Dunque la lascio in libertà; riposi bene; buona notte.
– Buona notte. —
Ed io scrittore, che sono in prigione anch'io, e non ho nessuno che me la dia, giacchè la buona notte mi è capitata sotto la penna, me la dò da me stesso, e faccio conto di andarmene a letto.
CAPITOLO XII
– Ma il Povero dov'è rimasto? – Che v'importa del Povero? se, invece di essere freddamente curiosi, voi foste pietosi anche a mezzo, non mi avreste lasciato andare solo solo a cantargli l'esequie; ma mi sareste venuti dietro, – vi sareste arrampicati uno sull'altro per arrivare alle sbarre della prigione, – avreste consolato quel misero colla vista d'un volto umano, – vista più cara del cielo in quella oscura solitudine; lo avreste chiamato per nome, – gli avreste gittato un pane, una parola soave di compianto; avreste infuso olio e vino nella ferita, come il Samaritano dell'Evangelo; – e invece avete fatto peggio del Fariseo, – non gli siete passati neppure d'accanto. Che v'importa del Povero? Non siete voi freddamente curiosi? Non siete voi egoisti? Non siete voi venuti meco a veder la vita del Signore in prigione per alimentare un cupo sentimento d'invidia? Non v'ho io veduti percossi da un brivido allo spettacolo degli ori e degli argenti, degli arredi preziosi, delle laute vivande? Non ho io sentito le vostre voci, le vostre esclamazioni, che la passione mandava fuori velocemente come dardi, – e il calcolo non avea tempo neppure di coprir loro le vergogne? – Non ho io veduto passare sulle vostre fronti un nuvolo di pensieri diversi, ma tutti armati di artigli? Ecco perchè veniste meco a vedere il Signore. Non siete voi egoisti? Il Povero non aveva nulla da farsi invidiare, – invece aveva bisogno d'una consolazione, e d'un tozzo di pane. – Ecco perchè non siete venuti meco a visitare il Povero. Non siete voi egoisti? Ed io non sono un egoista? Io non mi fido della mia pietà; e, se l'ultima somma è più sicura della prima, parmi di aver trovata la vera chiave del motivo, per cui mi son trattenuto tanto tempo Povero. Sentite, se vi torna. Ho veduto che nessuno si curava dell'infelice, – e allora io mi son mosso, – gli