Il Confalonieri si pose a lato del Verri, quasi per fargli scudo della sua momentanea popolarità, e lo accompagnò fino all'uscio della sala, rimanendo sul limitare. Nell'interno poi della sala, tutto il Consiglio era scompigliato; i senatori, sbigottiti, non idonei per tempra ad affrontare somiglianti tempeste, non chiedevano altro senonchè si cedesse. Il Verri confermò loro che, senza un'immediata adesione ai desiderii della folla, non si poteva guarentire la salvezza del Senato. Non v'era bisogno di più forti scongiuri. Un senatore stese il decreto, di forma semplicissima: il Senato richiama la Deputazione, riunisce i Collegi Elettorali, e la seduta è sciolta. Il presidente Veneri appose la firma; siccome la folla già batteva all'uscio ed occorreva pubblicare il decreto, tutti i senatori e gl'impiegati si posero a scriverne copie, che poi venivano gettate e diffuse tra il popolo tumultuante.
Questa risoluzione salvò probabilmente i senatori da un possibile eccidio; i capi della cospirazione riuscirono a calmare per un istante le turbe, tanto che i senatori potessero, sgusciando ad uno ad uno, sfilare lungo i corritoi, tra gli urli e i fischi di quella plebe sfrenata. Poi cominciò il saccheggio. Il ritratto di Napoleone, dipinto da Appiani, fu bucato dalla punta di un ombrello e gettato sul lastrico della via. Poi, tavoli, sedie, usci, specchi, stufe, persiane, le carte d'archivio e i libri della biblioteca, tutto fu rovesciato, divelto, rotto in frantumi, buttato dalla finestra.
La prima parte della Rivoluzione era compiuta; il Senato era esautorato, sgominato, poteva dirsi abolito. Gli ostacoli che parevano gravi al partito italico s'erano superati. Ma restava l'altra metà del programma; quella che stava più a cuore del partito austriaco puro; e anche questa, poche ore dopo, era inesorabilmente e atrocemente compiuta.
Bisogna ora che ci trasportiamo col pensiero in altra parte della città; sopra un'altra area, pure oggi immemore della tremenda tragedia, i cui edifici sono consacrati a quanto v'ha di sereno e di nobile nel consorzio umano, la religione, l'arte, l'amministrazione cittadina, l'ospitalità.
La piazza di S. Fedele non aveva allora nè quell'aspetto regolare nè quella sufficiente ampiezza che oggi le si riconosce. L'edificio in cui trovasi l'albergo della Bella Venezia si protendeva allora assai più innanzi, con un massiccio quadrato, diviso dal prolungamento della via del Marino dalla casa Imbonati, divenuta ora teatro Manzoni.
La facciata poi si prolungava tanto verso il palazzo Marino da lasciare adito ad una viuzza strettissima ad angolo retto colla via del Marino; tanto stretta quella viuzza che, come nota il compianto Cusani, obbligò il celebre architetto di Tomaso Marino a costruire questa fronte del suo palazzo senza euritmia; cosa che ognuno può verificare od avrà verificato, notando che la porta centrale ha otto finestre a diritta e soltanto sei a sinistra, per potere collocare quella porta d'ingresso in faccia alla contrada dell'Agnello e sottrarla all'oscura strettoia, per cui nessun rotabile avrebbe potuto passare.
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