La plebe, parte III
CAPITOLO I
Il marchese di Baldissero, se vi ricorda, aveva recato seco il manoscritto di Maurilio che gli agenti di polizia avevano sequestrato nella perquisizione fatta in casa il pittore Vanardi. Le poche cose che ne aveva lette fugacemente, segnate colla matita rossa dal commissario Tofi ed additategli dal Governatore, lo avevano invogliato, uomo di alto senno e di imparziale giudizio qual egli era, di fare più ampia ed esatta conoscenza, come si suol dire, colle idee ardite insieme, e per lui, ed in quel tempo massimamente, affatto nuove, manifestate dal giovane pensatore.
Sedutosi adunque nel suo severo studiolo, dove siamo già penetrati, il marchese lesse con attenzione gli squarci seguenti:
«Sieyes disse in sul fine del secolo scorso la sua famosa frase: «Che cosa è il terzo stato? Nulla. Che cosa dev'egli essere? Tutto.» Egli con ciò esprimeva la sintesi, la conclusione del movimento di progresso del secolo XVIII nell'ordine politico ed economico, il programma della rivoluzione che ne legava le basi dell'attuazione e ne lasciava compiere l'edifizio al secolo corrente. E questo secolo non si finirà senza che si proclami un'altra formola, od anche non proclamata in parole senza che si cominci ad effettuare nei fatti, la seguente: «Che cos'è la plebe? Uno stromento cieco, una forza senza guida, di cui si ha paura e cui si comprime, capace ora più del male che del bene. Che cosa ha ella da diventare? Una forza consciente ed illuminata, che abbia essa stessa la ragione, e colla sua potenza trascini il mondo nella via del bene.» Ancor essa, la plebe, ha da diventar tutto, perchè nel suo gran seno ha da avvolgere e contenere e confondere quelle separazioni che ora diconsi classi, fatta serbatoio unico e comune di tutte le intelligenze, di tutte le individualità operatrici, in una specie di emanatismo politico, nell'unità di popolo.
«Leggevo l'altro giorno di certe macchine a vapor acqueo che mandano innanzi sopra rotaie di ferro una filza di carri di peso madornalissimo con velocità meravigliosa e fanno muovere i congegni e le ruote d'un intiero opifizio con un movimento trasmesso. Cotal forza di vapore non diretta, mal governata può essere uno sterminio; in quell'organismo meccanico è una benedizione. Ecco l'immagine della plebe nel movimento sociale: ecco la sua parte che oramai viene ad assegnarle il progresso allo stadio in cui si trova. Abbandonata a sè, malamente e a torto compressa, disordina o scoppia con danni infiniti. L'organismo meccanico che deve farne una forza utile è l'assetto politico e sociale che conviene rimutare di molto, non certo per bruschi passaggi, ma per lente gradazioni di miglioramenti.
«Ma quest'organismo politico e sociale deve egli esser quello che attuò l'assolutismo accentratore, per cui la volontà d'un solo dia norma e regola a tutto il movimento della vita pubblica d'un popolo; deve egli esser quello che sognano i comunisti per cui la società assorbendo compiutamente ogni personalità, distrugge la libertà individuale per fare di tutti la ruota d'una macchina agente di forza sotto una specie di legge fatale? No: sono tirannia e il comunismo e l'assolutismo, due forme d'un medesimo errore, d'un medesimo delitto, lo schiacciamento della personalità umana, sul libero sviluppo della quale deve fondarsi il progresso dell'evo moderno. La condizione, l'ambiente in cui e per cui deve aver luogo la rigenerazione della plebe può essere soltanto LA LIBERTÀ…
«L'umanità cominciò per essere tutta schiava, perchè tutta ignorante: schiava delle forze della natura che non aveva imparato ancora a vincere e guidare, schiava dei proprii istinti animali che non aveva ancora imparato a dominare e farne virtù ed affetti. Dalla profondità di questo abisso di tenebre intellettuali e morali, cominciarono a sorgere gradatamente ad una luce relativa sempre via via crescente i pochissimi, poi i pochi; cominciano ora ad essere i molti; non sono ancora i più, conviene che sieno tutti. I sacerdoti prima, che usarono la forza del pensiero a consolazione e terrore insieme dell'universale, approfittandosi del sentimento religioso, primo sintomo di progresso nell'uomo uscito appena dall'efferatezza della barbarie; poscia i guerrieri che usarono la forza dell'animo e del braccio in difesa dell'associazione comune; quindi coloro che col commercio e coll'industria usarono delle forze della natura per accrescere la ricchezza della sociale agglomerazione. Al di sotto sta ancora l'immensa massa di coloro che usano le forze tutte della loro vitalità nella lotta della produzione, ad effettuare benefizi economici, sociali e intellettuali a cui essa troppo poco o nulla affatto partecipa. La società dell'India ha da secoli arrestato il movimento progressivo ascensionale delle classi, cristallizzandone per così dire l'assetto nella stabilita fatalità delle caste: a qual punto erano allora arrivati i differenti strati sociali dovevano fermarsi in eterno colla varietà immutabile dei loro diritti e vantaggi maggiori o minori misurati dall'ingiusta casualità della nascita: sacerdoti, guerrieri, trafficanti, ultimi i paria che non dovevano aver mai diritto, nè vantaggio nessuno. Ma quella società in tal modo s'è tolto l'elemento e la ragion della vita; immobilitando il suo organismo ne impedì la funzione migliore, quella del migliorarsi; ogni corpo sociale che non progredisce, decade; quella società da secoli sta lentamente morendo.
«Ma in Europa eziandio, anche dopo il fiero scuotimento della rivoluzione di Francia sono troppi ancora i paria! Il risultamento della gran rivoluzione, fu l'esecuzione la più compiuta possibile del programma di Sieyes: l'emancipazione, anzi il trionfo del ceto medio. L'impero stesso napoleonico non rappresenta altro a' miei occhi. È la democrazia del terzo stato che si afferma mercè la forza contro l'antica monarchia del diritto divino, contro l'antica aristocrazia dei privilegi, contro l'antica supremazia del papato; tre forze del mondo andato a fascio colla rivoluzione, le quali tenevano schiava l'umanità. Napoleone è un parvenu della borghesia che invano cerca coprirsi col manto del sacro romano impero di Carlomagno per illudere il monarcato e i vecchi patriziati d'Europa; che riesce a circondarsi d'una specie di Cesarismo democratico per trascinar seco le masse. In Roma non v'era ceto medio, e Cesare per abbattere l'aristocrazia si fece l'uomo della plebe; in Parigi, dopo la rivoluzione, Buonaparte si servì del militarismo e della conquista per ispandere le affermazioni politiche ottenute dal terzo stato e che erano sornuotate all'anarchia, dopo la sconfitta del demagogismo plebeo. L'opera di Napoleone, politicamente e socialmente parlando, è tutta nel Codice civile: il vangelo della società moderna. Dopo l'impero non fu possibile più che un monarcato borghese. I Borboni, tornati, dovettero acconciarsi a regnare in tal modo, e poichè Carlo X non seppe adattarvisi a dovere, la rivolta del 1830 lo cacciò per far luogo ad un re secondo il cuore dell'epoca: un re, come lo chiamano al di là delle Alpi, un re di bottegai1.
«La plebe dalla grande rivoluzione, a dispetto delle audacie demagogiche e delle utopie sociali che si presentarono alla luce del giorno, non ebbe, nella divisione dei benefizi, che una menoma parte: appena se la ricognizione di alcuni diritti, la concessione di pochi; la precarietà delle sue condizioni non fu mutata, la sua emancipazione dalla miseria, o tentata soltanto e male, o pretesa attuare con ispedienti più nocivi e minacciosi dei diritti d'altrui. Il torto non fu degli uomini nè degli avvenimenti: fu della necessità delle cose. Il nostro ceto non trovavasi ancora in condizione da approfittare della rovina della società antica per farsi, nella ricostruzione della nuova, un posto migliore. Era giusto che il ceto medio ne vantaggiasse egli primo e quasi esclusivamente, perchè quella rivoluzione era opera sua, da lunga mano egli ci si era preparato, nel suo seno era sôrta quell'agitazione filosofica di criticismo che aveva arrivate ed affascinate anco le sfere superiori e preparava nell'ordine delle idee quella distruzione del vecchio che doveva poi aver luogo così meravigliosamente ne' fatti. A tutto ciò la plebe non aveva collaborato che con qualche tumulto suscitato dalla miseria, andando a gridare, sotto alle finestre di quella che era ancora per lei la Provvidenza incarnata, voglio dire la monarchia, che aveva freddo e che aveva fame. Quando la rivoluzione, facendo come Saturno, ebbe divorato i migliori suoi figli, ella era entrata un momento nel campo lasciato libero, ma con non altro concetto direttivo che le follie o tristi o puerili degli Hebert, dei Babeuf e dei Clootz, col tristo corteggio delle tricoteuses della ghigliottina, allo sciagurato lampo della lama sanguinosa di quello stromento di morte.
«La rivolta del 1830 non giovò molto di più all'emancipazione della plebe. Non fu che una vendetta della borghesia verso la ristaurazione che aveva creduto poterla rigettare di nuovo sotto la dominazione delle vecchie schiatte feudali.
«Poi la quistione si complicò sventuratamente con quella della forma politica. Gli amici della plebe credettero che il vantaggio di essa più facilmente