M'avvedo d'aver rimpicciolito, col paragone d'un giardino, l'aspetto di Parigi notturna. Era un sacrificio fatto alla luce elettrica e al suo carattere teatrale. Parigi non può essere paragonata degnamente che a Babilonia, alla Babilonia del convito di Baldassarre, che abbiamo veduta nelle incisioni del Martin, o di Gustavo Doré. Quella gran luce fa biancheggiare nel fondo le isole gigantesche dei fabbricati. Gli alberi rompono un tratto quella gran mano di bianco; ma sotto gli alberi, la luce dei chioschi, dei caffè, delle botteghe, sforacchia per mille versi la frappa. Poveri alberi, quando dormono? E quando cessa questo viavai di gente, e questo affollarsi di vetture, di omnibus e di tramways?
La moltitudine che si pigia sui marciapiedi è in gran parte di forastieri. La nota dominante è spagnuola; segue l'italiana, con una certa sovrabbondanza d'elemento veneto. Inglesi pochi; tedeschi pochissimi; americani così così; qua e là qualche algerino col turbante, e un'aria di Beni-Mouffetard che consola. Sapete che cosa sono i Beni-Mouffetard? Alessandro Dumas ha raccontato in uno dei suoi mille volumi l'origine di questo nome, appioppato agli Arabi apocrifi, nati nella via Mouffetard, che è, od era, tra le più centrali, tra le più parigine di Parigi. Anche i francesi autentici si conoscono facilmente. La più parte hanno il nastro rosso all'occhiello. Si può credere che tutti i decorati della Legion d'Onore si siano dati la posta a Parigi, per fare una esposizione dell'Ordine.
Dicono molti che il nastro sia necessario qui, per essere trattati con qualche riguardo. Parecchi italiani accettano il consiglio e mettono fuori il nastro verde, o bianco e vermiglio, o tutt'e due di costa. Io credo che non ce ne sia proprio bisogno. Ho anzi sperimentato che il mio scudo e il mio marengo hanno un valore uguale a quello di tanti cavalieri visibili, e che un «pardon» e un «s'il vous plaît» ottengono sempre ogni cosa da questo popolo gentile, anche quando questo popolo s'accorge che siete italiano e ricorda di vedervi volentieri come il fumo negli occhi.
Intorno a questo sarebbe necessaria una parentesi; ma la farò un'altra volta. Vi basti sapere che il francese è pieno di amabilità con tutti e che non occorre di mettere il ruban, salvo che lo si faccia per cavarsi la voglia. Nel qual caso, nessuno ride, come si riderebbe in Italia. Il ruban è la cosa più naturale del mondo e se ne fa qui un grande consumo, come da noi di prezzemolo. Perfino gli alabardieri delle chiese principali sono cavalieri della Legion d'Onore. Andate alla Trinità, come ci sono andato io, per veder tutto, e potrete ammirare un bel pezzo d'uomo, giovane ancora, con la mazza dal pomo d'argento, portare in processione per la chiesa la sua brava decorazione, mentre dietro lui, un prete sagrestano va attorno a raccattare i soldi dei divoti, durante l'elevazione dell'ostia.
A proposito di chiese, noto il particolare abbastanza curioso, ma per contro non abbastanza bello, che, per farvi vedere una cripta, una sagrestia, od anche semplicemente il coro, i preti vi sottopongono ad una tassa di cinquanta centesimi. Anche in questo caso c'è il vecchio sergente giubilato, avanzo glorioso di Magenta e di Solferino, che si adatta all'ufficio di guardia del tempio, per mostrarvi le ceneri di santa Genovieffa, o la tomba del signor di Voltaire. Questi due santi sono uguali, davanti ai cinquanta centesimi; purchè ve li piglino, i custodi del santuario non abbadano al modo. Noi, nelle nostre chiese, ci abbiamo la piaga del cicerone; ma questo si può mandarlo al diavolo come e quando si vuole, e i signori forastieri non si fanno pregare, per appigliarsi a questo espediente. Qui c'è la tassa di veduta, e non c'è modo di salvarsi, bisogna pagarla. A Nôtre Dame accade anche peggio; la porta laterale, unica aperta, strettita a bella posta, è occupata militarmente da venditori di coroncine, da mendicanti ufficiali colla piastra d'ottone, da monache le quali vi chiedono la carità pour leurs pauvres, da sagrestani che ve la chiedono pour l'obole de saint Pierre, e finalmente da un personaggio ambiguo, che intinge un pennello nella pila dell'acqua santa e ve lo mette gentilmente sotto il naso, perchè con una mano possiate dare al segno della croce la quantità d'umido che è necessaria a quest'atto, e con l'altra abbiate occasione di fargli aggradire un paio di soldi. Tutto ciò riesce molesto agli uni, offende il sentimento religioso degli altri. Io, per me, preferisco la beghinella romana, che vi s'accosta vergognosa alla svolta d'una colonna, e vi dice a bassa voce: «signore, la carità; sono una povera madre disgraziata.» Non mi parlino più con tanta sicumera dell'accattonaggio italiano; li ho visti alla prova, e mi tengo cari i miei cenci.
Del resto e dopo tutto, un popolo curioso e grazioso. C'è qui la buona grazia di chi vive allo stretto, e la tolleranza di chi può svoltare la cantonata e trovarsi subito al largo. Pazzie ed atti ragionevoli, virtù e vizi, qualità e difetti, mettono qui ogni cosa in comune, dandosi a vicenda del gomito e dicendosi «pardon.» C'è del buono, vi dico io, c'è del buono. Impariamo.
II
Il cervello del mondo. – Caso e necessità politica. – Una fioritura colossale – L'article de Paris– La virtù del cartellone. – La caccia al compratore. – Gli occhi della padrona. – La scala dei prezzi. – L'arte di pelare un pollo senza farlo stridere.
Che cosa sia questa città lo sanno tutti, anche senza averla veduta. Della sua importanza molti si fanno un concetto più grande del vero, e tra costoro ce ne sono parecchi che l'hanno veduta e ci vivono. Non è forse Vittor Hugo che l'ha battezzata di suo capo «il cervello del mondo?»
Essa non è altro, in verità, che il cervello della Francia e ci si vede il frutto di quattro secoli d'accentramento, tirannico dapprima, indi spontaneo, per forza di consuetudine. Oggi i re e gli imperatori sono spariti; ma tant'è, il popolo francese ci ha fatto il verso e continua a lavorare, a spogliarsi, a levarsi il pan di bocca, per la grandezza di Parigi, come avrebbe fatto nel Medio Evo, per pagare la decima a' suoi gloriosi castellani.
Parigi, prendendola ab ovo, è la figlia del caso, maritato ad una necessità politica di Giulio Cesare. Il vincitore delle Gallie doveva convocare in un punto del territorio conquistato i capi delle varie genti. Le maggiori città erano cadute in sua mano e distrutte; una meschina borgata, costruita di paglia e di mota in un'isola della Senna, ebbe l'onore di accogliere quella prima forma di congresso. L'esempio di Cesare, come molti altri del grand'uomo, fu seguito dagli imperatori romani, taluno dei quali vi pose anche dimora. Costanzo vi fabbricò un palazzo; Giuliano vi fu proclamato imperatore; Graziano vi perdette la vita. Vennero i re franchi, Merovingi, Carolingi e Capetingi. Parigi era diventata il centro religioso e teologico della Francia. In un tempo come quello, che dava tanta parte delle cose umane alla Chiesa, il primato di Parigi fu assicurato. Dapprima col benefizio delle scuole, che attiravano scolari da ogni punto d'Europa, poi con le grandi opere di Francesco I e de' suoi successori, la sua fama e la sua potenza si accrebbero a dismisura. La monarchia dei Valois, rassodandosi in Francia alle spese dei grandi vassalli, fece di Parigi una nuova Atene ed una nuova Roma, alle spese delle provincie, ridotte in obbedienza, o delle terre straniere, saccheggiate quando ne capitava l'occasione. Anche adesso, Parigi si sostiene così, sebbene coi mutamenti portati dalla civiltà; si nutre di provinciali e di forastieri, senza volerlo, quasi senza saperlo, come noi di cavallo, o d'altro animale non destinato agli onori dell'ecatombe alimentaria. In tutta la Francia si lavora e si produce a gran furia; qui solamente si appiccica il bollo della fabbrica. I lavoratori di Francia, nelle settimane di riposo, vengono qua per vedere i musei, i giardini, i palazzi, le luminarie in continuazione, il loro sfoggio, insomma, quello sfoggio che non si farebbero lecito in casa. E ci lasciano allegramente i loro quattrini, qualche volta dell'altro, come a dire la salute, per andarsene via tutti orgogliosi di questa perla, di questo diamante, di questa meraviglia del mondo moderno, che è unica, laddove quelle del mondo antico erano sette.
Madrid non fu così splendida, quando Carlo V poteva credersi il padrone dell'Europa. E si capisce. Madrid era più nuova, come capitale, e comandava con la forza, rinfrancata dalla superbia; mentre Parigi ha sempre comandato con la grazia e con le moinerie, facendosi perdonare perfino la sua gloria, con una cert'aria trionfale che non escludeva il sorriso. Così come l'hanno fatta gli anni, gli uomini e le donne, è una fioritura colossale, sproporzionata per ogni nazione che non chiamasse le altre a goderne la parte loro. Si può maledirla coi filosofi; bisogna riconoscerla coi diplomatici. C'è chi pretende di assegnarle un termine, come a Ninive, a Babilonia, a Persepoli, a Tebe; ma io credo che il parallelismo