Rimasto solo, il giovine si lasciò andare bocconi sulla sponda del letto, colle ginocchia a terra, ringraziando il Nume ignoto che lo serbava in vita e in libertà.
Egli non pensava a se stesso in quel momento, lo sapete; pensava a Maria.
III
Di una corte d'amore, la quale fu tenuta nel secolo decimonono.
Messer Lodovico Ariosto, chiamato a buon dritto il divino, non se la cavò neppur egli dai tortuosi meandri del suo meraviglioso poema, se non coll'umile spediente di correre innanzi e indietro senza posa, e, servitore sgobbone di tutti i suoi personaggi (che non erano pochi, nè docili), pigliar questo per mano e guidarlo per un lungo tratto di strada; tornar sollecito indietro e cavarne un altro dal pozzo; voltarsi qua e là, scendere e salire per pianure e montagne, navigar per mare oltre le colonne d'Ercole, volare financo alla luna, ed intricare e districare mai sempre le fila che gli avevan posto tra mani «le donne, i cavalier, l'arme e gli amori».
Lettori, avete capito il latino? Vi abbiamo condotti senza intoppo, o quasi, fino alla prima ora del 30 di giugno, e adesso ci conviene, per le necessità della nostra narrazione, rifarci indietro una mezza giornata. Tante fila s'intrecciano, s'imbrogliano e s'aggrovigliano intorno ai nostri personaggi! Abbiamo veduto come finisse la sua impresa Lorenzo Salvani; ora dobbiamo vedere come finisse la sua Enrico Pietrasanta, tirato a buon trotto dalla sua pariglia di rovani alla villa Vivaldi, nelle vicinanze di Quinto.
Nè basta. Siccome da lungo tempo non s'è più visto in scena Aloise, nè la bella Ginevra dagli occhi verdi, precederemo il Pietrasanta colla nostra fantasia, specie d'ippogrifo che va più veloce a gran pezza de' suoi baldi cornipedi.
Siamo dunque a Quinto, alle spalle del paese, in quel palazzo che sapete, murato a foggia di castello, con la sua torre che usciva da un lato dell'edifizio, rompendo ad angolo due acque del tetto; in quella magnifica villa, dove vi abbiamo condotti, nella prima parte di queste fedelissime cronache contemporanee, il giorno della prima scampagnata del convalescente Aloise.
Ogni cosa colà, il giardino, il prato, la selva, la campagna tutta quanta, ha mutato d'aspetto, per opera d'una rigogliosa vegetazione. Giacomino, il giardiniere ortodosso che sapete, ha fatto miracoli coll'aiuto della madre natura. Le aiuole, le ampie gradinate dei vasi d'ogni forma e misura, i canestri foggiati in terra sulle falde del prato, risplendono di mille fiori svariati, vaporano mille diversi aromi per l'aria serena. Le camelie, le violette e i giacinti, hanno ceduto il luogo allo stuolo moltiforme della flora d'estate. Le molli ninfee sono fiorite nel laghetto dove scherzano i cigni; le paulonie dall'alto fusto e dal largo fogliame verde cupo, si rischiarano in color di smeraldo alla luce del sole; nè più chiedendo il riparo della veste di paglia, le magnolie mettono al sommo d'ogni ramo le candide bocce pannocchiute dalle sottili fragranze. Ne' vasi, in bell'ordine disposti, fioriscono cento famiglie di pelargonii, di rose e di garofani, i mugherini indiani e le gardenie del Malabar, che derivano a noi i narcotici effluvii della terra natale. Nelle aiuole crescono gli elitropii dai lunghi e fogliosi steli, gli eliotropii delle cui ciocche odorose le donne gentili amano ornarsi lo sparato del camicino; gli umili mughetti mettono fuori i verdi litui fregiati di brevi campanellini bianchi; gli amorini d'Egitto si tengono modestamente a terra, dissimulando nel verde delle foglioline la poca apparenza dei fiori, ma non la soavità degli odori, gradito compimento, insieme coi dittami, e quasi cornice dei mazzi eleganti; le tuberose scarse di foglie, ma ricche di fiori, torreggiano qua e là; i gelsomini e le gaggìe salgono a spalliera, s'inerpicano lungo le amiche pareti.
Pari alle gaggìe nei loro serpeggiamenti, s'innalzano le asclepie, mostrando su tenui fili quasi innestate le larghe foglie coriacee e i carnosi fiori stellati. Più sfoggiatamente vestiti si levano in alto gli abùtili, e lasciano con leggiadra civetteria ricader mollemente tra i pampinosi tralci le graziose campanelle socchiuse, dai petali giallognoli e bizzarramente venati di scuro. Guardate il prato, com'è tutto d'un bel verde tenero! Qua e là il dolce declivio è interrotto da larghi ed alti ciuffi di foglie ricadenti a ombrello, lunghe, sottili, affilate e pieghevoli come lame di Toledo. È il ginerio argenteo, che protende in aria, su svelte asticciole, e lascia cullar mollemente da ogni soffio i suoi candidi pennacchi, che appaiono (qua la mano, secentisti!) altrettanti colonnelli dell'esercito di Flora. Più in là l'ibisco siriaco e l'africano, cresciuti ad arbusto, schiudono a centinaia i larghi calici bianchi e vermigli, dagli orli vagamente intagliati e dal fondo screziato. Sui margini della prateria, sbucano le iridi dal fitto delle loro foglie gladiate, a far pompa di grossi fiori turchinicci e odorosi. I cacti, orrida famiglia, mostrano, coi fiorellini nati dai dorsi villosi, che anco nel cuor più duro spuntano qualche volta i soavi pensieri. Le agavi americane, colle vaste foglie aguzze e dentate, sfidano il cielo a battaglia. E più lontano ancora, l'orizzonte è celato agli occhi da una fitta selva di salici, di conifere e di piante d'ogni maniera, che descrivono il fondo a quella scena incantevole.
Tutto è allegrezza, tutto è festa, nella ringiovanita natura. Come tutto vive, come tutto si spande, luce, colori, fragranze, armonie! Vedete i campi, aiuole naturali, canestri foggiati capricciosamente nel suolo dal giardiniere invisibile, dove nascono, vivono ed amano migliaia di tenere pianticelle, dalla graziosa pratellina alla severa piantaggine, dalla euforbia ingrata alla cedragnola pietosa, confuse tutte tra ogni maniera di erbe matte, vicino all'utile cicerbita, all'aromatica pimpinella, al timo e al mentastro odoroso, che formano anch'essi il loro giardino! Vedete più oltre l'erica gentile, inconsapevole dell'uso ingrato a cui la condannerà l'industria umana, quando sarà sfiorata e sfrondata; il corbezzolo ed il ginepro, tutti e due ricchi di frutti, a ristoro dei pennuti avventori, e il pino domestico e il selvatico, e gli elci superbi delle non caduche foglie, e il rovere e il sughero, lieti dei nuovi germogli, che tutti descrivono anch'essi il loro fondo a quel complesso di naturali bellezze!
Il sughero! Lo ricordate, o lettori, quell'albero di sughero, che Giacomino, il giardiniere, faceva notare ad Enrico Pietrasanta, il quale, profano quel giorno alle delicature poetiche, lo sentenziò buonissimo per far turaccioli? Ricordate che a' piè di quell'albero era una tavola di lavagna, con parecchi sedili rustici tutt'intorno? Ricordate che quella era, a detta del giardiniere, la Corte di Amore, così chiamata da gran tempo, e dove tutte le Vivaldi, madre, nonna e bisnonna di Ginevra, avevano sempre avuto per costume di recarsi a passare le ore più calde della giornata? Se ciò v'è rimasto in mente, ricorderete ancora che la bella Ginevra dagli occhi verdi usava starci tre o quattr'ore ogni giorno; che faceva metter cuscini sopra i sedili, un gran tappeto sulla tavola, e una bella tenda tirata fra gli alberi, per custodirsi meglio dai raggi del sole; che Giacomino ci portava fiori; la cameriera dei libri e il telaio da ricamo della marchesa; il servitore dei rinfreschi, e gli amici convitati un subbisso di chiacchiere.
È il tocco dopo il meriggio; la vampa del sole che signoreggia liberamente il prato vicino, non penetra sotto il conserto fogliame degli alberi secolari; e l'ampio velario divisato a liste bianche ed azzurre, sospeso tra i rami sporgenti, vieta ai raggi indiscreti, che hanno potuto trapelare da qualche vano della frasca, di recar molestia alla gentil comitiva. Stridono con monotono metro le cicale su pei tronchi degli alberi soleggiati; le farfalle, screziate di mille colori e cosperse di polverina d'oro, vanno aliando qua e là, lungo le aiuole fiorite; le libellule, dalle svelte forme e dalle ali di zaffiro, si librano a volo sulla superficie del laghetto, che, solcata per ogni verso dalle candide prore dei cigni nuotanti, scintilla in riflessi d'argento.
Vedete ora, seduti al rezzo delle piante che v'abbiam detto, quali su rustici sgabelli di legno, quali su sedili di maiolica, foggiati a pila di cuscini vagamente istoriati, sei o sette gentiluomini. Fanno corona a tre dame, o, per dire più veramente, ad una sola. Le Grazie erano tre, tutte pari in bellezza, per modo che il riguardante rimanesse in forse a cui dare il vanto sulle altre due. Anche queste tre sono belle: ma una più dell'altre a gran pezza; di guisa che voi medesimi, o lettori, chiamati a giudicare, dareste il vostro voto alla marchesa Ginevra.
Padrona di casa, ella non può condurre la cortesia ospitale fino al segno di essere e di apparire inferiore in bellezza, o pari almeno, alle sue nobili visitatrici. La Giulia Monterosso, di cui già vi abbiamo dipinte le labbra tumide e coralline, le guance vivide come le pesche duràcine e gli guardi accesi che avrebbero