CANTO II
Benchè da poi che 'l Redentor del mondo
Dimostar31 volse un sol Dio trino et uno,
Ogni idol falso32 rovinasse al fondo,
Pur fra' pagani ancor ne restò alcuno;
Che li33 altri Dei, eccetto il ver, secondo
Debbe di nuoi34 fedel creder ciascuno,
Erano di Pluton seguaci rei,
Che la gentilità chiamava Dei.
Ma per la morte, e pel misterio sacro
Della acerba passion del Verbo eterno,
Qual segnò i suoi di quel santo lavacro
Che lava in nuoi ogni peccato interno,
Restò a Plutone il mondo acerbo et acro,
E ritrarse gli fu forza all'Inferno;
Nè falso alcuno Idio restò a' cristiani,
Ma qualche illusion fra li pagani.
E però a alcun di vuoi strano non paia
Se a Feraguto quella ninfa apparve,
Qual si chiamava dell'altre primaia,
O fusser corpi veri o finte larve,
Pur parea corpo quella ninfa gaia,
Se con qualche ragion debbo parlarve:
Non sciò35 come altro giudicar si possa,
Chè un spirto non si tocca in carne e in ossa.
Toccavassi36 ella e ragionar se odiva,
E porse a quel baron37 lo illustre scuto,
A cui, da poi che 'l suo parlar finiva,
Rispose allor sagace Feraguto:
O sii donna mortale, o eterna diva,
Eternamente ti sarò tenuto,
Che in dui perigli, fuor d'ogni speranza,
In l'un scuto mi desti, in l'altro stanza.
Ma qui se fai ch'a Venere io sia grato,
Nè mi trovi in amor tanto infelice,
Ch'io non vi fui giamai aventurato,
Pur ch'io vi fussi un tratto almen felice,
Io mi reputarei sempre beato.
Che tanto un sol piacere a un miser vale,
Che gli rimette39 ogni passato male.
Ma non sciò, ninfa,40 se ragione o errore
Sia, che sperar mi fa di questo puoco:41
Come esser può che a quella Dea d'amore,
Che altrui suole infiammar, piaccia tal luoco?
Esser non può che in umile liquore
Produr si possa, e conservarsi, il fuoco,
Il fuoco che più al cor d'ogni altro preme,
Che mal pon stare dui contrari insieme.
Ben mostri, alto baron, vivace ingegno,
Disse la dama, e razional discorso,
Che cum la forza uniti ti fan degno
Di conseguir d'amor dolce soccorso;
Spera, che fine arai al tuo disegno,
E alla sventura tua42 porrai il morso,
Quanto ad Amore e Venere si spetta,
Benchè tua mente in ciò dubbia e suspetta.
Ma dubitar non dei, che 'l fuoco pasce
In umido43 liquore e si conserva,
Come in vuoi il calor nativo nasce
In radicale umor, che in vita serva
Nel materno alvo l'uomo e nelle fasce,44
E sempre umor da morte lo preserva;
E in la lucerna piccoletta fiamma
In oleo e in altro umor se aviva e infiamma.
Però Venere infiamma e si diletta
Di quello umor che sta col caldo insieme,
Anci nel mar di spuma fu45 concetta
Venere in cambio di genital seme;
La cosa non dirò, baron, perfetta,
Però che l'onestà la lingua preme,
Et a una donna, ancor che meretrice,
Lo inonesto parlar sempre desdice.
Il viver di Saturno, e ciò che fece
Al padre suo, mi converria narrarte;
Ma questo ad uomo più che a donna lece;
Bastammi46 a dir la più opportuna parte,
E che come la fiamma in oleo o in pece,
Così in l'umor stia il caldo, dimostrarte;
Nè ti sia cosa nova e inusitata.
Che una Naiade a Vener sia dicata.
O felice colui che intender puote
Il secreto poter della natura!
O quante cose sono al mondo ignote
Che l'uomo di sapere ha puoca cura;
E se fussero a nuoi palesi e note
Procederia ciascun cum più misura.
Da te ben resto chiaro e resoluto,
Rispose a quella dama Feraguto.
Ma pregote, dapoi che mi hai promesso
Favorire47 in amore i miei disegni,
Che quando un tanto don mi fia concesso
Di amar cum frutto, me ne mostri segni;
Che sempre duolse, puoi48 che in speme è messo,
A cui come sperava non li avegni:
Sicchè, dama gentil, fa' poi ch'io sapia
Quando tal grazia in mia persona capia.
Rispose allor la vezzosetta dama:
Io sempre fui fedele a chi mi crede,
E Vener anco, e chi infedel la chiama,
Non ben dicerne49 quel ch'amor richiede;
Fidelità conviensi a chi bene ama,
E dir si suol che Amor sempre